Forse con Draghi non sarà un argomento primario, ma tra i temi in discussione in questi giorni nei vari “tavoli” avviati per risolvere la crisi di governo vi è quello della riforma della legge elettorale. L’ennesima, per quel vizio che ormai da molti anni accompagna le vicende parlamentari inducendo la maggioranza di turno a confezionarsi una legge su misura per poter far incetta di voti nelle elezioni prossime venture. Per la verità, l’operazione quasi sempre non è andata in porto, non ha portato fortuna ai fini cesellatori dei nuovi meccanismi, risultati sconfitti nell’agognata competizione elettorale.
Oggi l’orientamento prevalente è quello di tornare ad un proporzionale puro, integrato – secondo la proposta dei Cinquestelle – con il sistema delle preferenze. Ipotesi, quest’ultima, sicuramente da guardare con attenzione, in quanto consentirebbe di uscire dall’imposizione dei candidati dall’alto. Anche se non occorre dimenticare il rovescio della medaglia, quello della caccia al voto con i metodi più spregiudicati (e talvolta poco leciti) che portò illo tempore a eliminare tale possibilità.
Il punto, però, non è tanto questo quanto quello dell’adesione a un sistema proporzionale o maggioritario. Ciascuno ha i suoi pro e i suoi contro, non esiste un sistema perfetto, e tuttavia occorrerebbe scrivere le regole elettorali di ogni Paese cercando di garantirne la governabilità. E, soprattutto, non mutarle ad ogni giro di valzer.
Inutile dire che negli ordinamenti democratici più antichi il maggioritario la fa da padrone. Dagli Stati Uniti all’Inghilterra una scelta differente suonerebbe come un violino stonato. Si potrebbe replicare che quei Paesi sono caratterizzati da un paio o poco più di forze politiche e, quindi, sono quasi “naturalmente” orientati al maggioritario. Il ragionamento però potrebbe essere rovesciato: vige il maggioritario perché vi sono poche forze politiche o viceversa vi sono poche forze politiche perché impera il maggioritario?
La domanda non è peregrina, venendo alla realtà italiana, caratterizzata come si sa da miriadi di partiti, partitini, movimenti e micromovimenti (spesso espressione di un leader fuoriuscito da una formazione più consistente per contare di più). La rappresentatività di tali forze, evidentemente, non può che far convergere in direzione del proporzionale. Ma tale scelta è in favore della governabilità? Questa legislatura è stata finora caratterizzata da governi tra loro agli antipodi, tutti nati dallo stesso “patrimonio” parlamentare espresso dal voto degli elettori nel 2018. Si dirà che il sistema elettorale ha garantito la governabilità, ma è anche vero che non si può certo parlare di una continuità di azione di governo, con riforme importanti spesso cancellate al cambio di esecutivo.
Va fatta poi un’altra considerazione. Negli Stati Uniti, dove il maggioritario è secco, all’interno del Partito Democratico come di quello Repubblicano non vi sono certo posizioni monolitiche, ma varietà di vedute. La peculiarità, rispetto al nostro Paese, è che confluiscono in un’unica forza politica nella quale le differenze si amalgamano e si fondono. Certo, a differenza dell’Italia, non vi sono scampoli di potere, posizioni sminuzzate, piccoli – e magari rissosi – satrapi che coltivano il loro orticello condizionando le dinamiche politiche.
Delle macro-forze, insomma, che esprimono la pluralità delle idee senza negare la rappresentatività a tutti. Il dibattito è all’interno dei grandi partiti, non tra una moltitudine che assomiglia al pulviscolo cosmico. Parafrasando Giorgio Gaber, si potrebbe dire che la frase più in voga dalle nostre parti nei palazzi del potere è «quasi quasi mi faccio un partito». Alla velocità di uno shampoo vediamo fiorire ciclicamente una nuova formazione, pronta a complicare lo scenario parlamentare.
Una virata verso il maggioritario, quindi, potrebbe semplificare il quadro politico favorendo il confluire di forze la cui identità spesso è di difficile decifrazione rispetto a quelle di provenienza, senza per questo sacrificare la rappresentatività. Il dibattito e il confronto si trasferirebbero così all’interno di quei partiti. Oppure, vi potrebbero essere delle alleanze di più partiti convergenti verso un unico candidato.
Sarà quel che sarà. L’importante è che non nasca una legge elettorale per (non) governare. Per trascinare partiti e movimenti in trattative estenuanti nelle quali, dietro i nobili propositi, si nascondono gli interessi personali. Non esiste, dicevamo, un sistema elettorale perfetto. Bisogna guardare agli obiettivi. In questo momento, forse, dovrebbe essere prevalente quello della governabilità.
Nell’Italia repubblicana la legge elettorale che maggiormente ha realizzato il maggioritario è stata il cd. Mattarellum, che nel 1993 attribuiva i ¾ dei seggi con collegi uninominali e a turno unico. Sarebbe bello che quell’idea trovasse oggi – che il suo relatore è diventato Presidente della Repubblica – nuovo spazio, naturalmente con gli opportuni adattamenti.