Se i soldi del fondo Next Generation Eu fossero investiti secondo logiche economiche, non solo l’Italia potrebbe ridurre i danni provocati dalla pandemia, ma il Belpaese potrebbe ritrovarsi, al termine del cammino, più unito di prima, dato che il grosso degli euroaiuti (Europa dixit) va destinato al Mezzogiorno. Ma sarà in grado, l’Italia, di cogliere un’opportunità davvero più unica che rara? Bah. Se le premesse sono quelle che ci è dato vedere, è meglio non illudersi. La politica nazionale è concentrata su tutt’altro, non a caso la nazione (sempre l’Italia) che riceverà più risorse dall’Europa è quella che più lascia a desiderare sia sulla preparazione dei progetti ad hoc (l’Unione non regala a scatola chiusa) sia sul cronoprogramma degli interventi previsti. Sembra, quasi, che il problema non ci riguardi e che ancora una volta sarà lo Stellone (esiste ancora?) a salvarci. Purtroppo la Dea Fortuna ha smesso da un pezzo di proteggere il Paese più bello del mondo e, quindi, altro che arrangiarci, vivere alla giornata e continuare a indebitarci. Così facendo, si rischierebbe un disastro irreparabile.
Ma da dove nasce la difficoltà del Paese di cogliere tutte le occasioni di riscatto, in modo da dare seguito e concretezza al principio di resilienza citato come un disco rotto in tutti i convegni e gli appuntamenti che contano e non contano?
L’economista Marco Vitale, nel suo recente libro Il Sud esiste (Marcoserratarantolaeditore) cita un classico della letteratura sul Mezzogiorno: Old Calabria (Vecchia Calabria). L’opera (pubblicata in prima edizione nel 1915 e in edizione italiana nel 1962) riporta il diario di viaggio di Norman Douglas (1868-1952), scrittore britannico famoso per il romanzo Vento del Sud (1917). Attraversando in lungo e in largo la Calabria, Douglas si convince che il vero tallone d’Achille del Meridione è rappresentato dalla concezione prevalente sull’organizzazione della società e del lavoro: il principio dell’affiliazione e del bisogno che prevale sul principio di della professionalità e della meritocrazia.
È trascorso più di un secolo dalla pubblicazione del saggio di cui sopra, ma a leggere le cronache politico-giudiziarie di questi giorni sulla terra di Corrado Alvaro (1895-1956), si direbbe che non sia trascorso neppure un giorno. L’eterno ieri, il passato che non passa è la croce della regione più arretrata d’Italia. Sono cronache, quelle calabresi, che portano acqua al mulino dell’economista peruviano-spagnolo Hernando De Soto, per il quale la causa fondamentale del mancato sviluppo di alcuni Paesi non va ricercata nella mancanza di capitale, semmai nella mancanza di diritto, perché senza diritto il capitale non può formarsi.
Ma neppure il diritto è sufficiente, se non viene irrigato dalla fonte più preziosa: la cultura. «Se la storia dello sviluppo economico insegna qualcosa - scrive lo storico (Usa) dell’economia Davis Landes (1924-2013) ne La ricchezza e la povertà delle nazioni. Perché alcune sono così ricche e altre così povere - è che a fare la differenza provvede il fattore cultura».
In verità non è soltanto la Calabria a presentare un deficit culturale inconcepibile nel 2021. L’intera Italia si va calabresizzando, confermando la profetica intuizione di Leonardo Sciascia (1921-1989) sulla linea della palma sempre in movimento verso Nord.
Ora. Come sia possibile utilizzare al meglio gli aiuti europei persistendo nella logica dell’affiliazione a scapito del criterio della meritocrazia, francamente rimane un mistero. Infatti, l’Italia è il posto che cresce di meno in Europa, pur vantando una rendita iniziale mica da niente, grazie a quei ministri a tempo indeterminato, come gli artisti Michelangelo Buonarroti (1475-1564) e Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), che da soli valgono un Pil da capogiro.
Purtroppo l’unica (sub) cultura a non conoscere crisi è la cultura dell’affiliazione, che costituisce una regressione rispetto alla già censurabile cultura dell’appartenenza. Cultura dell’affiliazione significa adottare criteri mafiosi e paramafiosi nella selezione dei gruppi dirigenti o dei cerchi magici che assecondano i desiderata del Principe. Cultura dell’affiliazione significa premiare la dote feudale della fedeltà (che quasi sempre si tramuta in infedeltà) anziché la dote illuministica della lealtà.
Se, a tutti i livelli, l’affiliazione è la regola più diffusa, sia nelle scelte delle classi borghesi sia nell’azione del ceto politico, è come minimo complicato attendersi efficienza e rapidità di riflessi nelle emergenze come quella in atto.
Un Paese normale e le sue Regioni dovrebbero tenere sempre pronto, sul tavolo, un «parco progetti» per intercettare tutti i finanziamenti ordinari, straordinari e inattesi che dovessero profilarsi sulla scena. Così come le imprese dovrebbero essere sempre in grado di elaborare progetti che consentano loro, al momento propizio, di essere finanziate dal mercato, oltre che dalle istituzioni pubbliche nazionali e internazionali,
Ha ragione Roberto Saviano: politica e borghesia sono il virus del Sud. Rectius: di tutta l’Italia. Se la politica è la maggiore industria del Paese, c’è poco da essere fiduciosi. Non è una prerogativa dello Stivale. Tutte le nazioni meno sviluppate condividono questa caratteristica: il protagonismo, il primato della politica, con le sue logiche di affiliazione, nell’economia di un territorio.
Il sociologo Luca Ricolfi forse avrà esagerato nel prefigurare l’approdo alla società parassitaria di massa, dopo aver descritto la società signorile di massa. Ma, gira e rigira, la prospettiva sembra quella da lui descritta.
Nel Sud, e in Italia, il percorso sembra segnato: il 20%, forse addirittura il 10% si farà carico della produzione di beni e servizi. Il resto starà a guardare sollecitando solo nuove politiche redistributive. Ma con questi numeri non si fa molta strada. Servirebbe una rivoluzione culturale suscettibile di moltiplicare i pochi capitani coraggiosi che lavorano per sè e per gli altri. Ma fino a quando il metodo dell’affiliazione annullerà la selezione meritocratica, la stessa cosiddetta resilienza rimarrà soltanto flatus vocis.