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Un Paese oltre l’orlo di una crisi di nervi

 
Leonardo Petrocelli

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Leonardo Petrocelli

Un Paese oltre l’orlo di una crisi di nervi

Roma, protesta a Piazza Venezia

Tra rabbia sociale, frustrazione, restrizioni, furbizie e stanchezza dicembre rischia di diventare un delirio

Lunedì 16 Novembre 2020, 14:01

Il lockdown nazionale è un po’ come il Mes, una di quelle cose che, appena le nomini, c’è qualcuno che mette mano alla pistola. Lo stesso qualcuno che, magari, un minuto prima ha già accettato altrove condizioni più pesanti, per esempio sottoscrivendo il Recovery fund, ma il Mes no, quello mai. Lo stesso vale per la serrata generale, relegata nei ricordi della scorsa primavera ed evocata come un punto di non ritorno da cui sottrarsi a ogni costo. E quindi via all’Italia divisa in zone: rossa, arancione e gialla con qualche licenza poetica per cui il rosso diventa un po’ più chiaro (le tante saracinesche sollevate in Calabria) o l’arancione un po’ più scuro come successo, anche in Puglia, con le strette ulteriori varate da Comuni e Regioni.

Alla fine della giostra, però, l’arcobaleno pandemico ci sta conducendo, dritti dritti, proprio lì dove non si voleva andare. Cioè verso la «tinta unita», incubo di tutti i creativi della moda, ma anche dall’esecutivo giallorosso. E, come se non bastasse, il direttissimo verso il «lockdown di fatto» porta con sé due problemi non da poco.

Il primo è che i rapporti fra Governo e Regioni sono ormai ai minimi storici.

Ogni giorno va in scena un duello rusticano di polemiche, rimpalli, decisioni non condivise, contestazioni sui parametri, cifre che non arrivano e, se arrivano, sembrano taroccate. Ha cominciato la Campania: «Perché non ci mettete in zona rossa?». Ha proseguito la Toscana: «Perché ci avete messo in zona rossa?». Si sta arrabbiando la Calabria: «Perché non ci togliete dalla zona rossa?». Il risultato di tutto questo balletto, oltre alla fine di ogni tregua istituzionale (quella politica è andata a farsi benedire già da un pezzo), è l’enorme perdita di tempo che rischia di costarci il Natale. O, meglio, di farci arrivare al Natale tutti rossi come gamberi.

Chiaro, si fa presto a parlare col senno di poi, ma non sarebbe stato meglio chiudere tutto prima, magari fra le pieghe di un pressoché irrilevante novembre, per poi riuscire a trascorrere una fine d’anno quasi decente?

Qualcuno lo aveva detto, in realtà. Ad esempio i commercianti che, a fronte delle nuove disposizioni, avevano evidenziato come sarebbe stato meglio sbarrare tutto per qualche settimana piuttosto che tenere illusoriamente aperto fra centri storici deserti e acrobatici caffè d’asporto.

Inutile girarci intorno. L’arancione sarà pure un bel colore, o comunque un colore migliore di altri, ma i negozi sono vuoti. E la rabbia monta. Il Papa fa il suo mestiere quando dice che il Natale non è solo consumo. Lo fa meno il premier Giuseppe Conte quando suggerisce che si tratta di un momento di raccoglimento e che sarebbe meglio passarlo in pochi. Pur con tutta la buona fede del caso, sono frasi che suonano un po’ beffarde alle orecchie della gente. E la rabbia monta di più. Anche perché ci sono intere categorie di esercizi commerciali - chi vende addobbi, le enoteche, l’abbigliamento di lusso - che campano quasi esclusivamente sugli acquisti natalizi, un po’ come le librerie con i testi scolastici. Amputare lo shopping in quei giorni sarebbe il colpo di grazia per un sistema già allo stremo. Altro che ristori, ci vorrebbe una finanziaria intera per parare il colpo. Con Amazon e tutta la grande distribuzione online che continuerebbero a ballare sui cadaveri dei commercianti di casa nostra.

C’è poi tutto il filone degli affetti tra tavolate e ritorni a casa. Qui si apre la fiera del paradosso e la Puglia è un caso di scuola: se le cose restassero così, il figliol prodigo che vive all’estero potrà tornare con un comodo volo.

Quello che abita a Milano, invece, o è già rientrato nella terra natia prima che i colori prendessero il sopravvento oppure dovrà abituarsi all’idea di un Natale in cameretta con i coinquilini. Quello delle tavolate, poi, è un altro capitolo glorioso. Chi potrà accomodarsi al desco? Pare, e sarà una raccomandazione, il «nucleo familiare più stretto» per un massimo di sei persone. Come fu per i «congiunti», interrogheremo Google e qualche esorcista per capirci di più. Ma bisogna anche essere realisti e pensare che i furbi non mancheranno come già testimoniano i social dove, tra le schiere di negazionisti e menefreghisti, c’è anche chi promette cene da 50 persone con nonni centenari al tavolo. D’altra parte, è il Manzoni a insegnarcelo.

Quando il fante («paziente zero») entrò a Milano portando la peste a nulla servì bruciare il suo letto, sequestrare la casa e isolare o deportare le persone con cui era entrato in contatto. La gente si premurò comunque di trafugare i mobili da tutte le abitazioni dei primi contagiati («non ce n’è peste») portandosi dietro anche l’amaro «ricordino».

L’umanità è sempre quella. Purtroppo sarà il Natale a essere diverso. Tra rabbia sociale, frustrazione, restrizioni, furbizie e stanchezza dicembre rischia di diventare un delirio. Non sarebbe stato meglio soffrire prima per arrivarci un po’ più attrezzati e meno contagiati?

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