Sabato 06 Settembre 2025 | 15:47

Quella razza furbona che diventa italiota

 
Michele Mirabella

Reporter:

Michele Mirabella

Italia fuori dal Mondiale,  31enne strappa il Tricolore del monumento a caduto

L’invasione dei barbarismi nella lingua italiana sembra inarrestabile. Esiste un vaccino per difendere l’idioma?

Domenica 11 Ottobre 2020, 16:31

Giuseppe Prezzolini segnalava, tra gli Italiani, essere quasi la metà, fatta di furbi, a giudicarne i caratteri sommari. Non definisce la qualità della quale sono fatti i partecipi dell’altra metà. Mi riprometto di rifletterci. Comunque, i furbi.

La furbizia è talento scemo e può sembrare, a torto, un ossimoro. “Scemo” usato nel senso di manchevole. L’Italiano è furbo perché nella sua anima latita il senso della comunità e, per questo, la sua intelligenza è lacunosa. Il furbo svicola, arranca, taglia per scorciatoie anche in campo morale, non ha senso dello stato e considera la legge un limite allo sforzo arrogante del suo ingegno arbitrario.

Ma sempre scemo resta. Chi intercetta la nascosta e rancorosa volontà dei furbi e li sdogana, periodicamente, in Italia ha fortuna politica. Se non si ferma alla jacquerie qualunquista, può dire con Mussolini: “Governare gli Italiani non è difficile, è inutile”. Infatti, lui non li governò, li dominò.
Zelanti caudatari riempirono i muri d’Italia di suoi motti, invettive o incitamenti. Inventò un idioma. Non ero nato ai tempi biechi, ma, bambino, mi toccò sorbire epigrafie e repliche di frasi solenni che sbiadivano sui muri del dopoguerra. Mai caudatario di D’Annunzio fu più prolisso e invadente. Infatti, s’era guardato bene dal seguirlo nell’utopia modernissima dell’impresa di Fiume, per accantonarlo nel Vittoriale come onomaturgo del suo regime. Si, onomaturgo. Dal greco: chi conia parole nuove, inventore di neologismi. Proprio un coniatore di parole.

Ma, se non altro, Mussolini non si smentì mai: lasciò ai tirapiedi il compito di mettere delle pezze quando sbracava. Era avvantaggiato dal fatto che non aveva bisogno di comprare un giornale o di cambiarne il direttore per farsi assecondare. Lo chiudeva e basta. Oggi è più complicato. Il piacere di comandare resta più ingente di quell’altro, ma, almeno, il demagogo se lo deve guadagnare.

In parole povere: se comandare è meglio che sacrificare a Venere, i potenti si sono prodigati a non farlo sapere in giro e hanno incaricato i saggi e i poeti d’insegnarci a diffidare del comando e questi, pontificando, hanno avvisato che, al trono, s’avvinghia il maligno, sentenziando che comandare è faticoso, difficile, pericoloso. Così i popoli si sono mantenuti prolifici e le stanze del potere sono state abitate da pochi, casti furbacchioni. Ma il Foscolo avverte “In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorte: i pochi che comandano, l’universalità che serve e, in giro, molti a brigare.”
S’evince che, mentre la massa degli ubbidienti copula e serve restando all’oscuro della libidine del comando ben nota ai potenti, i briganti si divertono più di tutti. Fanno tutte e due le cose.

Brigante deriva da brigare: intrigare, impegnarsi spudoratamente o, anche, trattare con cose o persone per il malaffare. Un fiume di parole. Ma brigare non nasce criminoso, il termine indicava il pacifico stare insieme per adoperarsi nel lavoro o nel passatempo. Poi il termine s’è degradato e, oggi, designa l’affaccendarsi lucroso e oscuro, l’intrigo, la congiura, l’aggiramento delle leggi, la malversazione degli inermi, la furberia delittuosa, la soperchieria. Però brigante non s’usa più per nominare i colpevoli di tali azioni che sono spregevoli reati, sì, ma a seconda di chi le compie. Oggi brigante è usato come un vezzeggiativo complice. Già, nel talamo del primo Novecento, divenne sospiro stremato delle signore appagate. Ma chi oggi briga per sordidi interessi disonesti che cos’è? Dipende da dove lavora e se il suo ufficio, da uomo, lo trasforma in caporale.

Dedico a un amico queste riflessioni che ho rastrellato nel mio casellario degli appunti presi per agevolarmi nello scrivere un libro che non ha mai visto la luce per la mia indolenza e per lo spaventevole compito che rischiavo di dover affrontare: parlare degli Italiani miei contemporanei assecondando la premura di molti di paragonarli agli antichi, ai vecchi, agli appena scomparsi. Una “briga” non da poco.

La dedica è a Lino Patruno che, ieri, nel nostro giornale, ha affermato, in un bell’articolo sullo stato etico del nostro paese: “Quando qualsiasi parola sensata è una debolezza da sfregiare”.

Il riferimento, a conclusione dell’arguta, ma indignata denuncia, è allo stato pietoso delle condizioni del nostro vivere in comunità funestato dall’antropologia penosa della parata dei volti invadenti i mezzi di comunicazione e la socializzazione implacabile degli stessi e della agonizzante qualità della comunicazione sociale e, quindi dello stato pietoso della lingua che, della socialità è strumento sublime e irrinunciabile.

Io, a tal proposito, aggiungo alla riflessione ormai altamente allarmata degli osservatori sociali sullo stato della Repubblica, una nota sul deperimento della nostra lingua, ricca di “parole sensate da sfregiare”, e già molto sfregiate, dalla parata di avventurieri della società mondana e della mondanità sociale. Alla lapidazione delle parole italiane si aggiunge l’aggressione all’idioma da parte di portatori malsani di barbarismi e anglismi inutili: l’elenco è lungo e ridicolo, ma terribile.

Il contagio della lingua italiana è invadente, la pandemia da virus “Covid 19”, comporta il combinato disposto delle prodezze dei moderni onomaturghi che sono specializzati in brutture ridicole come “lockdown” che vuol dire, in italiano, “chiusura ermetica” o “spillover”, ovvero il “passaggio” di un agente patogeno da una specie all’altra a “droplet”, “gocciolina” in un soave idioma. L’esile campionario si ferma qua.

Ma l’invasione dei barbarismi sembra inarrestabile. Esiste un vaccino per difendere l’idioma?
Le lingue sono state e sono il risultato delle vicende della storia e delle opere e dei giorni dei popoli. Certo. Ma i popoli devono avere voce in capitolo e devono poter difendere, con la tradizione, il retaggio della propria identità. Giorno per giorno. Forse è il compito dell’altra metà, nella amara constatazione di Prezzolini, quella non composta di furbi e che, con l’amico Patruno che allude ai significati, non stimano le parole sensate una debolezza da sfregiare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marchio e contenuto di questo sito sono di interesse storico ai sensi del D. Lgs 42/2004 (decreto Soprintendenza archivistica e Bibliografica Puglia 18 settembre 2020)

Editrice del Mezzogiorno srl - Partita IVA n. 08600270725 (Privacy Policy - Cookie Policy - - Dichiarazione di accessibilità)