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I conti di Salvini con il populismo che non è più tanto popolare

 
 giuseppe de tomaso

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giuseppe de tomaso

I conti di Salvini con il populismo che non è più tanto popolare

Il narcisismo è una brutta malattia, nella vita, nello sport e, soprattutto, in politica. Guai a farsene travolgere. Si rischia il patatrac

Domenica 11 Ottobre 2020, 12:41

Meno male che il romano Matteo Berrettini, astro nascente del tennis italiano in coabitazione con Yannik Sinner, non sembra contagiato dal virus del narcisismo che tanto ha nuociuto agli altri due Matteo della ribalta nazionale: Renzi e Salvini. Altrimenti gli appassionati della racchetta, da decenni alla ricerca di un campione degno di Nicola Pietrangeli e Adriano Panatta, farebbero bene a dirottare le loro speranze solo sul diciannovenne altoatesino che a Parigi, per due set, ha tenuto testa a un mostro di nome Rafa Nadal, la cui concentrazione mentale, si sa, è superiore a quella di un computer.

Il narcisismo è una brutta malattia, nella vita, nello sport e, soprattutto, in politica. Guai a farsene travolgere. Si rischia il patatrac.
Di Renzi si sa. Aveva in mano il Paese e se lo è lasciato sfuggire per aver personalizzato al massimo ogni decisione governativa. Anche Salvini aveva in mano il Paese, da conducente del ministero dell’Interno. Poi, per un calcolo sbagliato (mettere in crisi il governo con il M5S scommettendo sul voto anticipato), non solo ha smarrito il volante dell’esecutivo, ma ha perso pure lo status di leader infallibile della Lega, traguardo che nemmeno Umberto Bossi, il fondatore del movimento, aveva saputo raggiungere.

Fino a poche settimane addietro a nessuno, nella Lega, sarebbe venuto in mente di uscire allo scoperto vagheggiando un’alleanza con il Partito Popolare Europeo o addirittura, in prospettiva, una confluenza nella famiglia europea che fa capo ad Angela Merkel. Anche perché la Cancelliera tedesca era raffigurata peggio di una strega dallo stato maggiore lumbard, era descritta come la Crudelia Demon di Casa Europa contro i soci italiani.

Non è che, adesso, la narrazione leghista sulla signora Merkel si sia ribaltata fino al punto da trasformare Crudelia in una rediviva Madre Teresa di Calcutta (1910-1997), ma di sicuro il linguaggio, nei confronti della Cancelliera, si è evoluto, la demonizzazione è sparita, pur restando forte la contrapposizione del Capitano alla linea politico-economica di Berlino e Bruxelles.

Epperò succede che il numero due della Lega, non un iscritto dell’ultima ora, esca allo scoperto e indichi un’altra strada al suo Principale. Epperò succede che il Doge di una regione chiave del Settentrione venga subissato di voti alle urne distinguendosi non poco dai proclami del Segretario nazionale.

In altre circostanze Matteo Salvini avrebbe invitato Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia a formalizzare i loro «distinguo» e a sottoporli al verdetto congressuale. Ma oggi l’atmosfera sembra cambiata e, a meno che il Numero Uno non ricada nella trappola narcisistica già autosperimentata nell’agosto 2019, non accadrà nulla di simile, di traumatico. Anche perché la linea Giorgetti-Zaia non è eterodossa rispetto alla tradizione o, meglio, alla genesi leghista. Anzi.

Le stagioni politiche di Umberto Bossi sono più numerose delle stagioni artistiche di Pablo Picasso (1881-1973). Ma è indubbio che la Lega viene concepita, in origine, più come formazione di rivolta fiscale che come movimento di rottura costituzionale.

A cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, i conti pubblici esplodono, il sistema partitico va in tilt, le inchieste della magistratura abbattono la Prima Repubblica. Saltano anche i vecchi taciti patti sotterranei, tipo l’assistenzialismo al Sud in cambio della tolleranza fiscale al Nord. E quando veneti e lombardi scoprono che gli obblighi con le tasse adesso vanno rispettati (altrimenti si rischia il disastro nazionale), si affidano colà all’uomo che ha fatto della lotta a «Roma ladrona» il suo proclama politico.

A Bossi non pare vero di poter ereditare gli elettori che in passato gratificavano e beatificavano i big dc garanti delle franchigie fiscali nelle vali padane, e se ne fa megafono. Successivamente lui aggiunge la secessione, il federalismo, l’Europa sì, l’Europa no, la devolution e tutte le altre diavolerie che gli saltavano in testa.

Insomma. L’elettorato lombardo-veneto, che vota Zaia e plaude a Giorgetti, vuole la pressoché totale autonomia da Roma, a condizione, però, che l’operazione comporti, innanzitutto, un corposo tornaconto fiscale. Altrimenti, ragionano da quelle parti, chissenefrega dei poteri conquistati da Regioni ed enti locali del Nord se poi le tasse continueranno ad aumentare come i contagiati dal Covid.

Così come il grosso dell’elettorato veneto che vota Zaia e plaude a Giorgetti non vuole neppure prendere in considerazione l’ipotesi di un calcione all’Europa e all’Euro per la semplice ragione che metà delle loro imprese di riferimento ha contatti, affari, stabilimenti, relazioni nella tanto vituperata Germania di Angela Merkel. Se dovesse prevalere la linea no-Europa, no-Euro, dei pasdaran leghisti, i primi a scendere dal Carroccio sarebbero proprio gli elettori moderati che sollecitavano un maggiore impegno contro i salassi tributari, non contro i trattati europei.

Il Mes (Meccanismo europeo di stabilità) fa da cartina di tornasole, in materia. Anche i tipi meno interessati alle vicende politiche forse hanno già notato come Zaia non veda l’ora di poter utilizzare quei fondi bistrattati dai populisti di destra e sinistra. I più avvertiti avranno già compreso che l’insistenza di Giorgetti nel mantenere buone relazioni con l’Europa, altro non significa che invitare il Capo a non fare i capricci, a non innalzare barricate contro Berlino e Bruxelles perché, altrimenti, il giocattolo (leghista) si rompe.

Salvini pare aver captato i segnali. Infatti parla per la prima volta di «rivoluzione liberale», anche se non correda il concetto con nessun progetto concreto. Vedremo.

Conclusione. Fino a pochi mesi fa, pareva che il campionato quinquennale della politica italiana avrebbe dato spago, ora a una sfida continua, ora a un’alleanza momentanea, tra populisti di destra e populisti di sinistra. Da un po’ di tempo il clima è mutato, e anche all’interno delle squadre populiste escono allo scoperto atleti con altri schemi e strategie di gioco. Salvini, per dire, non può non tenerne conto, pena il pericolo di subire gli scherzi della «sfortuna» di chiamarsi Matteo.

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