Se si considera che l’Unione europea ha deciso - per la prima volta nella sua storia - di emettere titoli di debito comune, per finanziare i sussidi ai singoli Stati colpiti dall’epidemia di coronavirus, si può essere soddisfatti: non sono ancora gli eurobond, ma è decisamente una svolta sulla strada della solidarietà. Se si considera, invece, che dai 500 miliardi originari di sovvenzioni proposti dalla Commissione nel Recovery Fund lo stanziamento è sceso a 390, su pressione dei Paesi cosiddetti “frugali” guidati dall’Olanda, si può anche essere alquanto delusi. E ciò nonostante il fatto che a questo importo vadano aggiunti altri 360 miliardi di prestiti che dovranno essere restituiti nel tempo, per un totale di 750 miliardi: meno di un terzo di quelli stanziati dagli Stati Uniti (3.000) che hanno 329 milioni di abitanti rispetto ai nostri 446 milioni.
È mezzo pieno, dunque, il bicchiere economico dell’Ue dopo la lunga ed estenuante trattativa che s’è svolta in questi giorni a Bruxelles. Al termine del braccio di ferro, l’Italia ha ottenuto la quota maggiore, per un totale di 209 miliardi di euro: 82 di sovvenzioni a fondo perduto e 127 di prestiti, in complesso 36 più di quelli annunciati.
Un indubbio successo per il nostro governo. E bisogna riconoscere al premier Conte il merito di aver mantenuto fino all’ultimo una linea di rigore e di fermezza, vincendo le diffidenze e le resistenze dei Paesi del Nord (Olanda, Austria, Svezia, Danimarca e Finlandia), Paesi di cultura in prevalenza calvinista per cui il debito è una colpa. Un piccolo gruppo che rappresenta appena il 10% della popolazione europea e il 15% del Pil continentale e che ha ottenuto in cambio uno “sconto” sui rispettivi contributi al bilancio europeo.
Resta mezzo vuoto, invece, il bicchiere politico dell’Europa che segnala ancora una volta un deficit di democrazia all’interno dell’Unione, con il quintetto dei Paesi minori che si sono opposti all’orientamento iniziale della maggioranza formata praticamente da tutti gli altri 22, tra cui Germania, Francia, Italia e Spagna. La circostanza poi che tutto ciò sia avvenuto nelle “segrete stanze” del Consiglio europeo, a cui partecipano i capi di Stato e di governo, piuttosto che nell’aula del Parlamento democraticamente eletto, aggiunge un ulteriore elemento di perplessità sulle motivazioni individuali. Sarà sufficiente ricordare a questo proposito che il premier olandese Rutte, il leader del fronte degli intransigenti, dovrà affrontare in primavera le nuove elezioni e sfidare in casa propria la minoranza sovranista anti-europea.
Forse non ha tutti i torti, allora, chi sostiene che l’Europa s’è allargata troppo, a Nord e a Est, per poter diventare una vera federazione di Stati e raggiungere un’effettiva integrazione. Ma, per colmare il deficit di democrazia, bisognerebbe almeno instaurare il “principio di maggioranza”, superando definitivamente l’utopia dell’unanimità ed eliminando il gioco dei veti incrociati. Altrimenti, la rapidità e la funzionalità dei meccanismi decisionali continueranno a essere inevitabilmente compromesse, con pesanti ripercussioni sulla competitività dell’Europa nei confronti delle altre potenze mondiali.
Per fare da contrappeso e bilanciare l’influenza dei Paesi cosiddetti virtuosi, sarebbe utile intanto ricostituire e rinsaldare quell’alleanza denominata EuroMed, fra i sette Paesi europei del Mediterraneo (Francia, Italia, Spagna, Grecia, Malta, Cipro e Portogallo, quest’ultimo considerato parte integrante anche se non affaccia direttamente sul “Mare nostrum”). Per storia, cultura e tradizione, questo è il “nocciolo duro” del Vecchio Continente: quella “culla della civiltà” in cui certamente non sono stati allevati gli “hooligans” olandesi del Feyenoord che qualche anno fa, in preda ai fumi della birra, sfregiarono la “Barcaccia” del Bernini a Roma, in occasione di una partita di calcio pareggiata dalla squadra di Rotterdam contro quella giallorossa. Basterebbe che il vertice di EuroMed si riunisse periodicamente a turno in uno dei sette Paesi, per concordare una linea comune imprimendo a questo organismo maggior peso e identità.
Al di là delle diffidenze, dei contrasti e delle polemiche, rimane tuttavia l’obbligo primario di spendere proficuamente i fondi europei, più e meglio di come l’Italia abbia fatto finora, sottoponendo i piani nazionali all’approvazione del Consiglio a maggioranza qualificata e non più all’unanimità. Sono le stesse clausole del Recovery Fund a indicare già le direttrici principali da rispettare: oltre alla ristrutturazione del sistema sanitario, la svolta “green” e la rivoluzione digitale. Chi accetta un tale fiume di denaro, deve accettare anche le condizioni stabilite nel testo intitolato non a caso “Next generation”.
L’obiettivo strategico, dunque, è quello di far ripartire il Paese per preparare un futuro migliore alle prossime generazioni, cambiando volto all’Italia. Si tratta, in concreto, di ridurre l’inquinamento atmosferico; di ammodernare le infrastrutture e il sistema produttivo all’insegna della sostenibilità; di realizzare una rete nazionale a banda larga per Internet ultra-veloce; di rinnovare la pubblica amministrazione; di sviluppare le energie alternative; di curare il dissesto idrogeologico. E magari di risanare finalmente l’ex Ilva di Taranto per trasformarla nella più grande acciaieria “pulita” d’Europa o di ristrutturare la rete autostradale, troppo a lungo trascurata da una gestione privata che s’è preoccupata più di aumentare i pedaggi e fare profitti che di fare manutenzione ai ponti, ai viadotti e alle gallerie.