Poco più di mezzo secolo addietro, fecero audience in Italia due formule che, per fortuna, non faranno molta fortuna. La prima sosteneva che il salario fosse una variabile indipendente. La seconda riteneva che fosse giunta l’ora di un «nuovo modello di sviluppo».
La prima formula si arenò di fronte al buon senso, oltre che davanti ai precetti della scienza economica. La seconda formula s’infranse contro la forza straordinaria dell’innovazione, i cui successivi vertiginosi exploit (servizi, telematica, web...) sarebbero sfuggiti, nelle previsioni, pure a un brain trust di scienziati di levatura leonardesca.
Ma siccome le leggi canoniche dell’economia vengono considerate un fardello insopportabile da vasti settori della cultura italiana, e siccome è sempre diffusa la tentazione di rifugiarsi nel relativismo culturale anche in campo economico-finanziario, può succedere che certe vecchie formule, come diceva l’inglese John Maynard Keynes (1883-1946) a proposito di alcune bislacche teorie di qualche economista defunto, risorgano all’improvviso sotto mentite spoglie.
È il caso del concetto di lavoro che in diversi settori della pubblicistica corrente viene raffigurato alla stregua di una nuova variabile indipendente.
Da un lato, giustamente, ci si preoccupa per la crisi, sempre più grave, dell’occupazione. Da un lato, si demonizza l’attività delle imprese, caricandole, fra l’altro, di oneri burocratici e pesi fiscali sempre più insostenibili. Ma sono solo le imprese a creare il lavoro, non certo le declamazioni, le invocazioni, le imprecazioni. E neppure la legislazione può, da sola, generare occupazione, visto che per stipendiare i propri dipendenti, lo Stato deve prelevare i soldi dalle attività private. Di conseguenza, impegnarsi a parole per il lavoro e, nello stesso tempo, impegnarsi, nei fatti, contro le imprese costituisce la più beffarda delle contraddizioni, tipo partire per il mare, ma ritrovarsi in montagna.
Se lo stato sapesse fare l’imprenditore, il problema non si porrebbe. Ma se lo stato non è in grado nemmeno di reperire le mascherine, il problema si pone, eccome, e in tutta la sua drammaticità.
Ostacolare l’impresa significa ostacolare il lavoro, visto che il mondo si divide tra cercatori di lavoro e creatori di lavoro. Se si penalizzano i creatori di lavoro, si penalizzano anche i cercatori di lavoro. E pensare che l’Italia ha consegnato alla storia dell’economia studiosi e imprenditori che hanno dato un impulso straordinario allo sviluppo del capitalismo moderno e della finanza. Francesco Datini (1335-1410), originario di Prato, inventò l’assegno. L’aretino Luca Pacioli (1445-1517) escogitò la partita doppia, il che lo consegnerà alla storia come il fondatore della ragioneria. Benedetto Cotrugli (1416-1469), dalmata approdato in Italia, regalò ai contemporanei e ai posteri un manuale di business (il Libro de l’arte de la mercatura), tuttora valido, il cui messaggio centrale, rivolto agli imprenditori, si fondava sull’etica comportamentale («Arricchirsi con onore»). E arricchiccrsi con onore, per Cotrugli, significava creare sviluppo e lavoro, non deprimendosi nei periodi di magra e non esaltandosi nelle fasi di boom.
Come sia potuto accadere che il Belpaese, che pure nel Cinquecento, malgrado la frammentazione in numerosi staterelli, era all’avanguardia, in Europa, soprattutto nel campo mercantile e finanziario, si sia via via orientato verso una cultura sostanzialmente ostile alle imprese, rimane un mistero, anche se, bisogna convenire, il feeling tra mente e denaro cessa, in tutto il Vecchio Continente, a partire dal 1830. Per dire. Con i suoi romanzi, lo scrittore inglese Charles Dickens (1812-1870) contribuirà a rovinare l reputazione del capitalismo, più dello stesso Karl Marx (1818-1870). E così faranno dopo di lui i narratori francesi Gustave Flaubert (1821-1880), Èmile Zola (1840-1902) e il tedesco Thomas Mann (1875-1955).
Ma il distacco maggiore tra intellettuali e imprenditori, tra cultura e impresa, si verifica e si avverte soprattutto in Italia, paese corporativo per convinzione e per convenienza (per i più garantiti), e come tale da secoli tendenzialmente refrattario, se non ostile, alla libertà e alla democrazia economica. Il fascismo, con la sua pretesa di imporre la volontà ducesca su ogni attività nel Paese, ha vieppiù contribuito ad alimentare la diffidenza nei confronti dell’autonomia e del dinamismo di ogni singola persona, e quindi anche di ogni operatore economico. Il sentimento anti-industriale diffuso negli altri filoni politico-culturali, ha poi fatto il resto.
Che senza le imprese ogni nazione sia destinata al declino e alla miseria, lo testimonia il divario Nord-Sud in Italia. In fondo la questione meridionale rimane inalterata da quando se ne parla: nel Mezzogiorno le imprese sono troppo poche, oltre che troppo piccole. Di conseguenza, il lavoro latita e bisogna cercarlo altrove.
Ecco perché colpire le imprese non significa punire i padroni. Significa innanzitutto punire i lavoratori. E soprattutto quelli del Sud che un lavoro non ce l’hanno e forse non lo troveranno mai.