Non si sa quando il coronavirus completerà il suo giro internazionale di morte e sofferenze. Non si sa perché a differenza di una guerra militare classica, non si conosce il volto del nemico, il che rende impossibile ipotizzare accordi o armistizi con lui. Né è immaginabile pianificare una manovra d’attacco, dato che il Mostro è più inafferrabile di un fantasma. In ogni caso, però, già si delinea la necessità, per i governi, di un’inevitabile e, in molti punti, auspicabile, ribaltone di esigenze e priorità rispetto alle scelte politiche varate finora. Vediamo l’Italia.
La spesa pubblica è destinata a crescere, ma di sicuro, si spera, dovrà concentrarsi su sanità, scuola e ricerca. Basta con i finanziamenti dell’effimero, dalle sagre ai festival super-raccomandati.
Basta con i soldi regalati a corporazioni e postulanti vari. Basta con le succulente elargizioni agli interessati finanziatori delle campagne elettorali. Basta con le leggi finanziarie di fine anno, che eccitano i sensi dei lobbisti e deprimono le casse dello Stato. Basta con le leggi incomprensibili anche per gli esperti e che si traducono in estenuanti mediazioni oliate dal pubblico denaro. Basta con salvataggi di Stato di imprese tipo Alitalia, solo perché non si vuole venderle a compagnie straniere in nome dell’italianità e della strategicità (sic). Quante terapie intensive, quanti reparti di pneumologia, quanti ospedali si sarebbero realizzati senza la sperperopoli di cui sopra?
E si potrebbe continuare all’infinito con il bisturi benefico, sopprimendo ad esempio il famigerato decreto Milleproroghe, appendice della Finanziaria, ma soprattutto rastrello di quasi tutte le marchette ministeriali.
Una ventina di anni fa l’impazzimento generale provocò l’infatuazione per il federalismo, che, poi, stringi stringi, voleva e vuole dire soprattutto regionalizzazione della sanità. I risultati prodotti dalla Riforma del Titolo Quinto della Costituzione non hanno bisogno di particolari esegeti. Anziché uniformare le prestazioni e i trattamenti a beneficio dei cittadini di tutta la Penisola, si sono creati 21 modelli autonomi di sanità, con il Sud retrocesso a quattrini in modo spaventoso, privo, com’è avvenuto, di uno scudo perequativo-compensativo. Non solo: il federalismo della sanità ha concimato il federalismo della corruzione. Che significa sciali a volontà e a voluttà, oltre che sfacelo del tessuto morale individuale e collettivo. In tutta Italia si sono assunti più amministrativi che medici, in linea con l’idea perversa secondo cui la burocrazia dev’essere la più grande azienda del Paese. Questo ambaradan si è accentuato perché, quattro lustri addietro, andava di moda inseguire, anzi cercare di anticipare, Umberto Bossi sul terreno della frantumazione localistica dei poteri. Roba da pazzi. Poi abbiamo visto.
Oggi anche il Nord sembra aver messo da parte l’obiettivo dell’autonomia differenziata. Lo ha messo da parte (sembra) perché si è reso conto che se le tragedie planetarie come il coronavirus non possono essere affrontate con gli strumenti nazionali, a maggior ragione non possono essere contenute con logiche e logistiche regionali. Molti, in Italia, sbraitano contro l’Europa perché la presidente della Bce (Christine Lagarde) ha dimostrato di non essere all’altezza dell’elevato podio su cui l’hanno innalzata. Ma senza l’Europa sarebbe ancora peggio per noi. Per tutti. Altro che divorzio dall’euro, come qualcuno, sotto sotto, lascia intendere. Sarebbe il disastro finale. Come si può solo pensare di fronteggiare emergenze colossali, come quella in atto, con i criteri delle piccole patrie? Non foss’altro perché il virus non conosce confini, si muove da un Paese all’altro con l’agilità di un campione olimpico.
Lo abbiamo accennato più volte, in passato, su queste colonne, anche quando nemmeno i veggenti più visionari avrebbero osato vaticinare una pandemia come quella in atto: lo Stato deve concentrare i suoi sforzi e convogliare i suoi soldi quasi esclusivamente su sanità, scuola e ricerca, lasciando ai privati il disbrigo delle altre attività.
E, soprattutto, sempre lo Stato, non potrà consentirsi di programmare la ripresa post-virus, mantenendo intatta l’attuale costruzione burocratica, anch’essa simile a una tortura cinese, visto che tortura e burocrazia colà, in Cina, sono, non a caso, sinonimi.
Purtroppo, la mentalità burocratica ha contagiato anche larghe fasce dei settori privati. La sublimazione del timbro, la ricerca del cavillo, l’ossessione formalistica si associano al micidiale coronavirus nell’ingrossare i fiumi di danni. Anche in questi giorni, solo il dispotismo burocratico non va mai in quarantena. Anzi il virus burocratico non perde occasione per dilagare e mettersi di traverso davanti agli spiriti e alle proposte più intraprendenti nel contrasto al flagello. Lo testimoniano le cronache da tutte le zone d’Italia, comprese quelle provenienti da un Nord abitualmente raffigurato come un esempio di rapidità decisionale per mezzo mondo.
Non sarà facile rivoluzionare tic, abitudini e attitudini che sono entrate nel profondo di ciascuno di noi. Ma l’eccezionalità della situazione richiede un impegno straordinario, oltre che un sovvertimento totale di tutti i metodi fin qui seguiti e di tutte le agende fin qui compilate.
Si dice che la sofferenza sia la premessa dell’intelligenza. Speriamo che lo sia anche della ripartenza.