Se ci trovassimo nei panni del vicepremier Matteo Salvini, neoazionista di maggioranza nella spa Lega-M5S, ci guarderemmo bene dall’esasperare lo scontro con l’Unione Europea. Non solo per una ragione contabile: i patti, soprattutto tra gli Stati, si rispettano alla lettera, pena la distruzione del lievito più importante che fa crescere le economie, ossia la fiducia reciproca tra gli esseri umani, tra le imprese e tra i governi. Ma anche per una ragione politico-elettorale. I votanti, da un paio di decenni a questa parte, sono più infedeli di Messalina, non sono più disposti ad aspettare il ritorno di Ulisse come faceva l’innamoratissima Penelope.
Anche in politica i sentimenti sono più instabili e sfuggenti della sabbia. I giuramenti elettorali sono più volatili delle proverbiali promesse dei marinai. È sufficiente un nonnulla per ribaltare convinzioni e propositi che parevano scolpiti nel marmo.
Alle corte. Oggi l’Europa non riscuote più l’indice di gradimento di una volta, quando il nazionalismo era ritenuto più blasfemo di una bestemmia in chiesa. Ma può bastare poco perché le lancette dell’orologio ritornino al loro punto di partenza e che l’Europa recuperi quella reputazione oggi nel mirino degli scatenati sovranisti e populisti. Del resto, soltanto pochi mesi fa sembrava che sull’Unione si sarebbe abbattuto il più tremendo cataclisma elettorale della storia continentale. Invece, il voto del 26 maggio non solo non ha premiato, ad eccezione dell’Italia, le sigle anti-europeistiche, ma ha acceso un faro, indirettamente, sui pericoli cui andrebbero incontro gli Stati smaniosi di seguire la Gran Bretagna sulla strada di Eurexit. Tanto è vero che oggi le forze maggioritarie del nuovo Parlamento di Strasburgo non hanno alcuna intenzione di smussare gli spigoli dei Trattati a beneficio di una maggiore flessibilità (leggi: più debiti per i singoli Stati). Anzi, dipendesse da loro, dalle formazioni prevalenti in Europa, la linea del rigore dovrebbe essere ulteriormente rafforzata.
Di conseguenza non ci sono margini per keynesizzare a oltranza l’Unione Europea, il cui battesimo venne celebrato proprio con l’impegno, sottoscritto da tutti i partecipanti, di stoppare ogni tentazione di ricorrere alla monetizzazione del debito (leggi: banconote stampate a voluttà).
La Lega non si dà per vinta. La sua anima più radicale ritiene che le regole di Bruxelles vadano cambiate senza se e senza ma. E che bisogna muoversi subito in questa direzione. In effetti qualcosa è già scattato in tal senso.
Si chiamano minibot e costituiscono uno strumento per saldare i debiti dello Stato nei riguardi delle imprese. Se non sarà in grado di pagare in euro i suoi creditori, lo Stato potrà uscire dall’impasse attraverso l’immissione di titoli dai 5 ai 100 euro (minibot, appunto) per un totale di 57 miliardi complessivi. Se non è una moneta parallela, vi manca poco. Moneta che però sarebbe vietata dal trattato di Lisbona, che assegna solo alla Bce il compito di timbrare valuta.
I minibot sono o saranno l’escamotage per preparare il divorzio dell’Italia dall’euro (anche perché non si capisce perché il governo di Roma debba inventare questi espedienti, mollando l’euro, per onorare i debiti con le aziende)? In verità, nessuno, tra i big dell’alleanza M5S-Lega, ipotizza e propugna l’Italexit dall’Unione Europea. Ma alcuni quadri della Lega, ad esempio Claudio Borghi, non hanno mai fatto retromarcia sull’idea di salutare definitivamente i partner di Bruxelles, né hanno mai escluso che i minibot possano trasformarsi in una scorciatoia istituzionale per dire addio alla moneta unica. Anzi. Fosse stato per Borghi, la lira sarebbe già risorta da lunga pezza.
È vero, una mozione, come un bicchiere d’acqua, non si nega a nessuno. Ma la mozione sui minibot approvata nei giorni scorsi a Montecitorio, ha ottenuto il plauso generale, cioè l’unanimità dei voti favorevoli. Il che la dice lunga sulla consapevolezza (assai modesta) di ciò che si approva e sui pericoli che certe decisioni, o certe indicazioni, possono provocare strada facendo.
Verrebbe da chiedere. Quale investitore sceglierebbe di farsi rimborsare con titoli di Stato come i futuribili minibot se ne avesse la possibilità? Forse bisognerebbe rivolgersi a un kamikaze per sperare in una risposta affermativa.
Per fortuna non se ne farà nulla, per la semplice ragione che qualora si dovesse materializzare l’idea di stampare sul serio i minibot, la fuga dei capitali all’estero diventerebbe più tumultuosa e inarrestabile di un’avanzata di bufali. Il che comporterebbe la devastazione di un sistema produttivo paragonabile all’invasione distruttiva di un Attila.
Servirebbe uno choc di cotanta portata per convincere gli italiani che uscire dall’Europa sarebbe un pessimo affare? Non crediamo. Molti se ne sono già resi conto, forse anche tra i vertici della Lega che, non a caso, evitano di parlarne.
Ecco perché al posto di Salvini tutto faremmo tranne che auspicare uno strappo con l’Europa. Anche perché le ripercussioni sul piano economico e produttivo in un battibaleno andrebbero, prima o poi, a urtare il serbatoio elettorale leghista. Infatti, a Palazzo Chigi, dopo la richiesta di procedura d’infrazione (per debito eccessivo) contro l’Italia, mettono nero su bianco che il Belpaese rispetterà il Patto di Stabilità europeo. Lo stesso Capitano del Carroccio annuncia risposte, tiene a precisare, «da persone educate».
Il caso inglese è istruttivo. Chi vuole separarsi dall’Unione, rischia di farsi male da solo.