L’Europa non dà tregua all’Italia. Le sue pagelle sull’economia del Belpaese scoraggerebbero anche i padri più fiduciosi sull’avvenire dei figli. Eppure nonostante i modesti voti in quasi tutte le materie, il governo del Belpaese fa finta di nulla, quasi che gli unici esami meritevoli di attenzione siano quelli elettorali. Ma le democrazie, e lo dimostra la complicata vicenda della Brexit autorizzata da un referendum, non si esauriscono solo al momento del voto, altrimenti si voterebbe ogni giono su molteplici discipline. Le democrazie si fondano sulle leggi, sulle procedure, sui filtri intermedi, sui dettati costituzionali.
In altri termini, se l’Unione Europea, figlia di trattati sottoscritti anche da Roma, invita un suo Stato membro a mettere ordine nei propri conti o a rivedere una manovra ritenuta in contrasto con l’esigenza di ridimensionare il debito pubblico, nessuno può fare orecchio da mercante.
Ma siccome l’Italia non è una Repubblica fondata sul lavoro, bensì sulla campagna elettorale permanente, le sollecitazioni di Bruxelles subiscono la stessa sorte delle immagini sottoposte al giudizio del Var quando l’arbitro assegna ugualmente un calcio di rigore fantasma. Di conseguenza a Roma preferiscono ignorare moniti e richiami.
In effetti il combinato disposto tra due forze dichiaratamente populistiche non poteva che condurre a un braccio di ferro continuo con l’Europa, solo in parte attenuato dalla moral suasion di magistrature di garanzia come la Presidenza della Repubblica.
Sembrava che l’erosione dei consensi elettorali ai danni di uno dei due soci della maggioranza governativa avrebbe suggerito maggiore prudenza nei confronti di Bruxelles, le cui decisioni incidono sulla vita e sulle finanze degli italiani più degli esecutivi nazionali e locali. Invece tira aria di nuovi contenziosi, di ulteriori conflitti, che saranno vieppiù esacerbati nell’imminenza delle consultazioni europee di fine maggio.
L’Europa ha bocciato sia il reddito di cittadinanza sia il varo di «quota 100» per le pensioni. Anzi, per l’Europa, la nuova misura previdenziale è persino più criticabile della mancia assistenziale a favore di chi si trova senza occupazione.
Sarà forse per questa ragione che Matteo Salvini difende a spada tratta l’alleanza con Luigi Di Maio anche quando le fortune di quest’ultimo cominciano a declinare? Può essere. Meglio essere in due - deve pensare il Capitano leghista - nell’azione di contenimento del pressing europeo in direzione del rigore finanziario. Con altre coalizioni, sia pure a robusta egemonia leghista, difficilmente si potrebbe produrre un mastice anti-europeo altrettanto resistente.
Ma Salvini sembra trascurare una legge tendenziale della politica, in voga dalla Groenlandia fino alla Nuova Zelanda. Non è facile, forse non è proprio posssibile, per un partito o per un leader, rimanere al top per lungo tempo, specie in una stagione di palese volatilità nei valori e nelle convinzioni. Non a caso i premier inglesi, allenati a tutte le opportunità che offre l’ordinamento democratico, non si lasciano mai sfuggire l’occasione di correre anticipatamente alle urne non appena le previsioni elettorali annunciano condizioni favorevoli. Certo, a volte succede che l’elettorato cambi idea alla vigilia del voto e che beffi i piani speranzosi del primo ministro in carica, ma non per questo i successivi premier non approfitteranno degli indici di popolarità per cercare di ottenere, anticipatamente sulla scadenza della legislatura, un bel pieno di consensi.
Intendiamoci. Non sarebbe facile per Salvini forzare la mano per sciogliere anzitempo le Camere. Non dipende da lui il prepensionamento dei parlamentari. Ma Salvini nemmeno ci prova a spingere in tal senso. Ogni giorno rinnova la sua dichiarazione di fedeltà a Di Maio, che manco i fidanzatini di Peynet.
Al posto di Salvini, però, ci chiederemmo se davvero il sovranismo economico, che fa da collante al contratto con i Cinque Stelle, sia destinato ad alimentare a dismisura il serbatoio elettorale della Lega. Già il 75% degli italiani non vuole mettere in discussione i trattati internazionali, a iniziare da quello che sovrintende all’euro. Se poi si dovessero aggiungere le perplessità dei ceti produttivi verso una linea di governo che sottovaluta la bomba del debito pubblico e sottostima l’effetto benefico di riforme e investimenti, beh allora bisognerebbe domandarsi fino a quando potrebbero convivere una maggioranza silenziosa favorevole all’Europa e una maggioranza parlamentare favorevole all’anti-Unione Europa.
Paradossalmente, anche se le proiezioni demoscopiche premiano Salvini e non Di Maio, a rischiare di perdere il boccino del gioco è soprattutto il primo, le cui aree geografiche di riferimento guardano più all’Europa che al Mediterraneo. Basti pensare che Umberto Bossi fondò la Lega per spaccare l’Italia e accodarsi alla Baviera qualora lo Stivale non fosse entrato nel club della moneta unica. Ma Bossi e Salvini oggi sono più lontani di Venere e Marte.
In ogni caso: appuntamento alle europee.