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Caso Diciotti e autonomia, la difficile arte del compromesso

 
Francesco Giorgino

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Francesco Giorgino

Diciotti, la nave dei migranti è intitolata a un pugliese d'adozione

Cominciamo con la vicenda Diciotti, che ha acquisito ancor più rilevanza dopo l’iscrizione nel registro degli indagati (anche) del premier Conte, del vice premier Di Maio e del ministro Toninelli

Lunedì 18 Febbraio 2019, 15:00

Non è facile accostare vicende completamente diverse fra loro come il voto dei senatori sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini per la vicenda Diciotti e il dibattito sul regionalismo differenziato. Enorme è la complessità di entrambe le questioni ad analizzarle separatamente, figuriamoci se si prova ad intrecciarle dentro una trama interpretativa finalizzata a mettere in evidenza da un lato lo stato di salute dei rapporti interni alla maggioranza, dall’altro le traiettorie intraprendibili da parte di entrambi i partiti se e quando impegnati in questo difficile tentativo di ibridare il modello della democrazia rappresentativa con quello della democrazia diretta.

Cominciamo con la vicenda Diciotti, che ha acquisito ancor più rilevanza dopo l’iscrizione nel registro degli indagati (anche) del premier Conte, del vice premier Di Maio e del ministro Toninelli, autodenunciatisi con la memoria inviata a Palazzo Madama. Come è noto il Movimento Cinque Stelle, ricorrendo alla consultazione online tramite la piattaforma Rousseau, sta provando a risolvere in modo salomonico il conflitto tra la propria identità di movimento antisistema, attento a garantire quell’eguaglianza sostanziale riassumibile nel principio “uno vale uno”, e l’esigenza di non rompere con il proprio alleato di governo. Nonostante l’esito sembri essere favorevole per Salvini, il voto popolare su questa vicenda e con questa modalità presenta margini di rischio, se consideriamo che è stata indicata nel settanta per cento dei voti contro l’autorizzazione a procedere per il Ministro dell’Interno la soglia di sicurezza per evitare contraccolpi della base grillina nei confronti di Di Maio.

Ma anche se consideriamo che i vertici pentastellati devono far percepire la trasparenza della procedura di voto, evitando che si sollevi un dannosissimo dibattito sulla regolarità della consultazione e se prendiamo in esame l’ermeneutica del quesito inerente la “tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” ed “il perseguimento di un preminente interesse pubblico”. Da un lato c’è la necessità di far vedere agli attivisti che non si sta cambiando pelle e dall’altro c’è il rispetto di un principio costituzionale (da garantire unitamente agli articoli 2 e 10 che prevedono il dovere di solidarietà e il diritto di asilo) specie di fronte ad un atto politico legittimato da una scelta condivisa da parte di tutto il Governo. Votare a favore dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini oltre che rappresentare un atto di incoerenza politica sarebbe anche la riprova dell’enorme difficoltà dei Cinque Stelle nel portare a compimento quel processo di trasformazione da movimento di protesta e di opposizione a partito di governo che popola, secondo il principio di realtà, i luoghi della politica e quelli delle istituzioni. È praticamente impossibile scindere le valutazioni politiche da quelle giuridiche, che porterebbero a considerare nella decisione collegiale (ex ante o ex post) persino profili di responsabilità in ordine ad ipotesi di abuso di potere o di omissione di atti d’ufficio.


Chi può stabilire che l’azione destruens sia più produttiva di risultati per il M5S di quanto non lo sia un approccio construens fatto di mediazioni, compromessi, abbassamento di toni, pragmatismo, logica istituzionale? È un argomento sul quale la base grillina deve riflettere. Appare più naturale infatti la soluzione opposta, soprattutto se analizziamo i molti dossier aperti e le non isolate divergenze con la Lega. Partito quest’ultimo capace di rinunciare alla propria identità originaria per elaborare una proposta politica in grado di attrarre moderati, popolari oltre che populisti, liberali, cattolici. Un partito quello di Salvini che si sta posizionando, grazie anche ad un’efficace azione di rebranding e ad un coerente storytelling politico, nell’alveo dei partiti di massa ed interclassisti, con un progetto di espansione nazionale riconoscibile.
Veniamo ora al secondo tema, quello delle autonomie regionali. Il 15 febbraio è stata chiusa la trattativa tecnica con le Regioni su 23 materie per quanto riguarda Lombardia e Veneto e su 15 materie per quanto riguarda l’Emilia Romagna. Una delle questioni oggetto di discussione è se il Parlamento possa o no emendare gli accordi siglati, ma in realtà appare più un tema politico che costituzionale, visto che la Carta stabilisce che a siglare l’accordo sia il Governo e la Regione e che al Parlamento spetti il diritto-dovere di ratificare o meno l’intesa.

Il ministro Stefani ha risposto positivamente al quesito, sottolineando nel contempo che il Governo gialloverde ha seguito lo stesso ragionamento logico portato avanti nelle pre-intese siglate dai governatori regionali con l’esecutivo Gentiloni. Il fatto che sia stato smentito il finanziamento delle Regioni in base al gettito fiscale induce ad affrontare il tema dell’autonomia differenziata in modo meno emotivo, ponendo cioè la questione al riparo da rischi propagandistici. Per le nuove competenze regionali si parte dalla spesa storica il cui ammontare viene trattenuto dalle tasse raccolte. Basta questo per superare le divisioni tra Lega e Cinque Stelle, a maggior ragione se consideriamo che i pentastellati hanno sostenuto il referendum sulle autonomie, che nel contratto di governo questa materia era indicata con chiarezza, così come nel Def? Lo vedremo. Una cosa è certa. Occorre intendersi sul significato della parola autonomia che non può in alcun modo essere il motore per attivare presunti disegni di divisione in due dell’Italia. Autonomia non come strumento di prevaricazione di alcune Regioni su altre, piuttosto come assunzione di responsabilità per contrastare sprechi e rendere la spesa pubblica regionale sostenibile, ma anche per incrementare la qualità dell’azione amministrativa nella consapevolezza che resta invariata la quota di sussidiarietà e di solidarietà per le realtà più disagiate.


Si può essere unitari e federalisti? È questa la sfida che ci attende, poiché nessun progetto di autonomia regionale può mettere in discussione i principi di uguaglianza e solidarietà. Diventerebbe fonte di ingiustizia legare i fabbisogni standard alla capacità fiscale dei singoli territori. Nella sfida dell’autonomia responsabile possono e devono entrare anche le Regioni del Sud al fine di potenziare le occasioni di integrazione sociale ed economica tra Settentrione e Meridione. La dialettica politica tra Lega e Cinque Stelle è giusto che avvenga su questi presupposti con un occhio al timing per evitare manovre dilatorie e un altro alle ragioni dell’unità nazionale.

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