Da che mondo è mondo, l’eterna guerra fra ricchi e poveri ha segnato nel bene o nel male la vita dell’umanità. Ed è sempre la stessa guerra che, sotto la spinta della crisi economica, alimenta ora il vento impetuoso del populismo in tutto l’Occidente: dall’America di Trump all’Europa di Merkel e di Macron fino alla povera Italia di Di Maio e Salvini. Un conflitto sociale a livello planetario che contrappone il popolo alle élites, alle classi dirigenti o dominanti, al cosiddetto establishment. Chi ha e chi non ha, chi sa e chi non sa, chi fa e chi non fa. Ai tempi della Rivoluzione francese (1789-1799), assunta come spartiacque fra l’età moderna e quella contemporanea, il popolo si ribellò contro il potere e i privilegi dei nobili, sostituendo la monarchia con la Repubblica.
All’assalto e alla presa della Bastiglia, seguì - com’è noto - il regime imperiale napoleonico, con tutti i suoi fasti e nefasti. Ma alla fine, dopo la Restaurazione tentata dall’aristocrazia europea, gli esiti della rivoluzione decretarono il declino dell’assolutismo, favorendo un nuovo sistema politico fondato sullo Stato di diritto, in cui la borghesia divenne la classe dominante.
Quella fu, dunque, una rivolta contro un potere che derivava impropriamente da un diritto divino o ereditario. Un potere non eletto, quindi, dal popolo e perciò non rappresentativo del popolo. Privo di investitura e di legittimazione popolare.
Ai giorni nostri, invece, è proprio la democrazia rappresentativa basata sul consenso elettorale a essere messa sotto accusa. E insieme alla vecchia classe politica, si ritrovano coinvolte anche le altre classi dirigenti: quella degli imprenditori, dei professionisti, dei magistrati, degli intellettuali e perfino dei giornalisti che rendono o dovrebbero rendere un servizio ai cittadini. Il popolo, insomma, contrapposto alle élites.
Non c’è dubbio che all’origine di questo sommovimento ci sia la Grande Recessione iniziata in America nel 2007, in seguito allo scoppio della bolla speculativa e al crollo del mercato immobiliare. Una crisi epocale, finanziaria, economica e sociale, che ha investito il mondo intero. Dodici anni, ormai, di incertezza, disorientamento, turbolenza, che hanno debilitato la società occidentale, accrescendo ulteriormente le disuguaglianze, improverando sempre più i proveri e arricchendo sempre più i ricchi.
È stata l’economia finanziaria, quella predatoria imperniata sulle rendite a scapito della produzione, che ha inflitto all’umanità un periodo così lungo di crisi e di sbandamento. E la colpa maggiore del ceto politico è stata quella di non riuscire a governare la nave nella tempesta, cioè a regolare il mercato e a impedire che gli animal spirits del capitalismo selvaggio avessero il sopravvento sull’equità e sulla solidarietà. Una gran parte della ricchezza prodotta da molti s’è concentrata così nella mani o nelle tasche di pochi, senza che i rappresentanti del popolo fossero capaci di difendere gli interessi legittimi dei loro rappresentati. Compito, questo, che spetterebbe innanzitutto alla sinistra, a tutte quelle componenti riformiste che ripongono la propria identità nella riduzione delle disuguaglianze e nella ricerca della giustizia sociale.
Non c’è da meravigliarsi, dunque, che in una tale congerie di eventi e di errori abbiano preso vigore in Italia o altrove le forze anti-sistema, anti-establishment, populiste e sovraniste, di destra o di sinistra: i Cinquestelle e la Lega, nel nostro Paese; i gilet jaunes in Francia; i movimenti estremisti xenofobi o razzisti in Germania e nell’Europa dell’Est. Le loro saranno anche risposte sbagliate alla crisi del sistema, pericolose, ingannevoli o fallaci; ma rappresentano comunque una reazione popolare che non si può ignorare o accantonare, come pretendeva di fare la regina Maria Antonietta – secondo quanto le attribuisce la tradizione - offrendo brioches ai rivoluzionari francesi che non avevano il pane.
Ma, per affrontare in modo costruttivo un tema così delicato e controverso, bisogna avere il coraggio di dire alcune verità, anche scomode e impopolari, riguardo agli sviluppi più recenti della vita politica italiana. E più in generale, rispetto ai principi e alle regole della convivenza civile.
La prima verità è che, per ragioni di natura, non siamo tutti uguali. Gli uomini e le donne nascono diversi: più alti e più bassi, più belli e più brutti, più dotati e meno dotati, più intelligenti e meno intelligenti, più capaci e meno capaci. E non è affatto vero, come sostiene la propaganda populista, che “uno vale uno”. Ognuno vale per quello che sa, che sa fare e che riesce a realizzare. Uno Stato liberale ha la responsabilità, però, di assicurare a tutti uguali condizioni di partenza, indipendentemente da quelle economiche e sociali originarie, riconoscendo e valorizzando le competenze secondo criteri di meritocrazia. Le disuguaglianze non si possono annullare, come insegnava Norberto Bobbio, ma si possono e si devono ridurre il più possibile.
La seconda verità è che il popolo, a differenza del cliente mitizzato dal celebre proverbio, non sempre ha ragione. Anche il popolo può sbagliare nelle sue valutazioni, nei suoi giudizi e nelle sue scelte politiche. Valga per tutti il responso su Cristo e Barabba davanti a Ponzio Pilato. E nella storia europea del secolo scorso, il popolo purtroppo ha già sbagliato tragicamente più volte. Nel ’24, quando gli italiani assegnarono alle liste fasciste il 65% dei consensi popolari. O in Germania, nel ’33, quando i tedeschi mandarono il nazismo al potere. Ma è altrettanto vero che il popolo detiene legittimamente il potere sovrano, da cui discende la separazione dei poteri teorizzata da Montesquieu: quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario.
Nell’era moderna, è stata la democrazia parlamentare a esercitare finora il potere in nome e per conto del popolo. Oggi, nell’era della democrazia digitale, il popolo tende a riappropriarsi del suo potere per delegarlo magari al leader carismatico, all’Uomo forte, al “Capitano” di turno. Sono i corsi e ricorsi storici di cui già parlava Giambattista Vico a cavallo fra il Seicento e il Settecento: non c’è da meravigliarsi più di tanto, dunque, che in una stagione così incerta, travagliata e turbolenta come quella che stiamo attraversando, prevalgano la tendenza alla semplificazione e il ricorso al “condottiero” che riassume in sé tutti i poteri, anche sotto l’aspetto iconico dell’immagine e magari della divisa, militare o paramilitare.
Il fatto è che le élites funzionano se sono riconosciute come tali dal popolo, se sono capaci di interpretarne le aspirazioni e le esigenze, se sono democraticamente legittimate. Altrimenti, a torto o a ragione, rischiano di essere percepite come una sovrastruttura autoritaria, un ceto predominante, una casta propensa all’autoconservazione. Ecco perché, di fronte alla crisi della democrazia parlamentare, il filosofo e sociologo tedesco Jürgen Habermas parla di “democrazia deliberativa”, fondata sull’uso e sull’applicazione degli strumenti elettronici: un processo decisionale attraverso cui il popolo si esprime direttamente, senza la mediazione di organismi rappresentativi.
È la Storia stessa, tuttavia, a dimostrare che spesso la contestazione delle classi dominanti si risolve nella sostituzione di un’élite con un’altra élite, con un ricambio generazionale che innesca un turn over di potere. E non sempre, purtroppo, questo produce un miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini. Spesso, anzi, nei regimi autoritari sono proprio le nuove élites che opprimono il popolo e soffocano la democrazia.