L’Italia è caratterizzata da un livello di disuguaglianza (reddituale e patrimoniale) superiore a quello di quasi tutti gli altri paesi industrializzati: cinque milioni di poveri assoluti costituiscono un enorme problema etico, civile e sociale, prima ancora che puramente economico. L’esigenza di intervenire a favore delle fasce sociali più svantaggiate è pertanto sempre più largamente avvertita. Di qui la proposta del cosiddetto “reddito di cittadinanza” che, per ciò che ci ha dato oggi di comprendere, si dovrebbe sostanziare in realtà in una sorta di indennità di disoccupazione a favore di individui comunque impegnati nella ricerca di occasioni di lavoro. Se l’obiettivo è ampiamente (anche se non unanimemente) condivisibile e condiviso, la situazione si fa più complicata se guardiamo a come finanziare questa misura la cui entità non è ancora ben chiara, ma dovrebbe comunque ammontare a diversi miliardi di euro l’anno.
Al momento i possibili canali di finanziamento sembrano essere due: il taglio alla spesa pubblica e l’aumento del deficit. Le differenze tra queste alternative sono naturalmente notevoli, soprattutto se si fa riferimento al positivo effetto sui consumi, e quindi sul PIL, che dovrebbe derivare da tale misura. Nel primo caso, infatti, bisogna ricordarsi che ogni euro di spesa pubblica costituisce reddito per qualcuno, attraverso la catena del valore aggiunto, indipendentemente che si tratti di spesa “produttiva” o di “spreco”. Se, come è avvenuto nel passato, i tagli si dovessero concentrare nel blocco del turnover dei dipendenti pubblici e nella riduzione dei lavori pubblici (in evidente contraddizione, peraltro, con l’impegno a varare “il più grande piano di investimenti della storia della Repubblica”) si rischierebbe di perdere (in mancati consumi) buona parte dei benefici derivanti dai nuovi redditi così distribuiti. Nel caso, invece, di finanziamento in deficit della manovra, l’effetto di aumento della domanda - puramente keynesiano - sarebbe certamente maggiore (anche se mai sufficiente a coprire più di qualche decimale di punto di PIL), ma dobbiamo chiederci se ce lo possiamo permettere.
Come i drammatici eventi di questi giorni ci dimostrano, infatti, i mercati finanziari applicano interessi più alti ai debitori meno “credibili”: il famigerato spread è appunto la misura della penalizzazione da noi subita rispetto al debito pubblico tedesco. Finanziare 10 miliardi di manovra in più al costo, ad esempio, di un aumento di 100 punti dello spread non significa solo pagare annualmente l’1% (100 milioni di euro) in più su tale debito aggiuntivo, ma ribaltare (almeno in parte) tali maggiori interessi sull’intero debito pubblico. Se anche tale ribaltamento fosse di soli 10 punti base, il danno a regime sarebbe di circa 2,4 miliardi di euro all’anno: assolutamente insostenibile rispetto al beneficio ricevuto. Dobbiamo quindi rinunciare ad intervenire a favore di cinque milioni di poveri assoluti? In realtà una terza possibilità c’è: affrontare il problema delle diseguaglianze aggredendole direttamente e riducendole, con trasferimenti di reddito da parte delle fasce sociali più ricche a favore di quelle più svantaggiate. I possibili strumenti sono molteplici: innanzi tutto una effettiva, e soprattutto efficace, lotta all’enorme evasione fiscale; quindi il ripristino di una reale progressività nelle tassazioni, ricordando che se l’IRPEF è progressiva (e dovrebbe continuare ad esserlo, con buona pace della flat tax) le imposte indirette sono sostanzialmente regressive; ed infine aumentando gli ambiti della tassazione patrimoniale. Tali trasferimenti di reddito non aumenterebbero il debito pubblico ed avrebbero effetti assolutamente positivi sull’aumento dei consumi.
E’ noto infatti che i depositi bancari delle famiglie italiane (relativamente concentrati nelle fasce sociali più ricche) sono sensibilmente aumentati negli ultimi anni. La “propensione marginale al consumo” è pressoché unitaria tra i poveri, significativamente più bassa tra i ricchi; in parole povere: se togliamo 10.000 euro ad un singolo che ne guadagna 100.000 l’anno, e diamo 1.000 euro cadauno a 10 poveri assoluti, registriamo un aumento di consumi da parte di questi ultimi di tutti i 10.000 euro, a fronte di minori consumi del ricco per solo una frazione del reddito sottrattogli, perché comunque ne avrebbe destinato una quota significativa al risparmio, per lo più improduttivo. Ma c’è oggi in Italia qualche forza politica, anche non di governo, che abbia il coraggio di parlare di sacrifici e di aumento del carico fiscale?