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Le relazioni pericolose tra super- debito e democrazia

 
GIUSEPPE DE TOMASO

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GIUSEPPE DE TOMASO

Il Meridione prima vittima del debito pubblico

La teoria che vede la democrazia come strumento di egualitarismo assoluto, cioè come sistema di redistribuzione permanente del reddito prodotto, colleziona più follower dell’influencer Chiara Ferragni

Giovedì 04 Ottobre 2018, 16:11

Sosteneva il citatissimo John Maynard Keynes (1883-1946) che spesso i governi, per avvalorare scelte poco convincenti, si rifanno, o pensano di rifarsi, alle idee bislacche di qualche economista defunto e dimenticato. Per sua fortuna, invece, Keynes non ha mai affrontato, in vita e post mortem, fasi di oblio e di impopolarità. Tuttora egli contende a Karl Marx (1818-1883) la palma di economista più evocato di tutti i tempi. Keynes, inoltre, direttamente o indirettamente, viene associato all’idea secondo la quale democrazia e debito pubblico, in realtà, sono quasi sinonimi, quasi due facce della stessa medaglia. Questa tesi, che concepisce la democrazia come strumento di egualitarismo assoluto, cioè come sistema di redistribuzione permanente del reddito prodotto, colleziona più follower dell’influencer Chiara Ferragni, anche negli ambienti intellettuali meno contaminati dalle tossine para-ideologiche più estreme. Tanto che l’elogio del debito pubblico come fattore di crescita economica, non più di decrescita, spunta pure nelle riflessioni degli analisti ritenuti impermeabili alla più piccola goccia di precipitazione assistenzialistica.

L’argomentazione addotta, che sta al pensiero effettivo di Keynes come la modestia a Flavio Briatore, è all’incirca la seguente: lo Stato ha il dovere di provvedere a tutti e a tutto, non solo in termini di servizi, ma anche sotto forma di redditi. Siccome i soldi da redistribuire non bastano mai, lo Stato non può che alleggerire le finanze di chi possiede di più. Ma siccome non si può andare al di là di una certa soglia nell’azione tassatrice e livellatrice della ricchezza (pena una diffusa disaffezione al lavoro), non rimane (allo Stato) che indebitarsi. Indebitarsi a oltranza pur di raggiungere l’obiettivo di una più estesa e incisiva assistenza economica.

Ma siamo sicuri che il maxi-debito faccia bene al Paese, sia pure camuffato sotto la contestata teoria del deficit molla della crescita? La Storia dimostra tutt’altro. Dimostra che è vero, che se è utilizzato in piccole dosi e per piani infrastrutturali, il debito può fare bene. Dimostra, pure, però, che il super-debito, invece, non solo impoverisce le nazioni, ma crea le premesse per l’avvento di sistemi autocratici e illiberali. Insomma, il super-debito non è amico delle democrazie, semmai ne accelera l’eutanasia. Certo, anche gli Stati Uniti sono super-indebitati. Ma l’America è l’America: un impero militare, prima che finanziario. E poi il Pil americano non va mai a nanna.

Nel 1975 l’economista statunitense Arthur Okun (1928-1980) pubblica un libro dal titolo Uguaglianza ed efficienza, il grande scambio. Okun rileva che nelle società caratterizzate da forti disuguaglianze sociali, la crescita economica è modesta. Viceversa, nelle società inclusive come quelle scandinave, la crescita è cospicua. Ma l’equità, riconosce Okun, non deve mettere a rischio l’efficienza. Tanto che l’economista si congeda dai lettori con questa domanda: «A quanta equità o giustizia sociale dobbiamo rinunciare per garantire un di più di efficienza economica? E viceversa?». In ogni caso, ragiona Okun, un sistema sociale che non garantisse l’equità, non potrebbe risultare efficiente.

Ecco il punto. C’è buona e cattiva uguaglianza. Così come c’è buona e cattiva disuguaglianza. L’uguaglianza nei punti di partenza è cosa buona. L’eguaglianza nei punti di arrivo è cosa cattiva (una beffa per i più bravi e operosi). La disuguglianza nei punti di partenza è cosa cattiva. La disuguaglianza nei punti di arrivo è cosa naturale.
L’equità è un valore. A patto che non coincida con l’assistenzialismo, che poi significa indebitarsi senza remore, il che infine può comportare l’addio alle conquiste democratiche.

La storia del Sudamerica offre le smentite più plateali e persuasive agli adoratori del super-debito inteso come safety-car del Gran Premio della ricchezza. La stagione giustizialistica dell’argentino Juan Domingo Peròn (1895-1974) e di sua moglie Evita (1919-1952) ha prodotto disastri, le cui conseguenze, colà, si avvertono e si piangono tuttora. Peròn si disinteressa dei conti pubblici, socializza le imprese, nazionalizza le banche, s’indebita senza freni, mette in fuga gli investitori. Risultato: bancarotta, miseria, tirannia.

Ma dal momento che il fascino delle idee demagogiche è più irresistibile di uno sguardo di Melania Trump, succede che in Argentina e in Sudamerica, il super-debito sia tuttora venerato come Zeus dagli antichi greci. Tanto, la colpa della crisi è sempre di un altro, di un nemico, di una superpotenza malefica. Non a caso, non solo l’Argentina non ha mai ripudiato l’irresponsabilità finanziaria rappresentata dal peronismo, ma, da allora, la nazione di Maradona si è divisa, come la restante America Latina, tra peronisti di destra e peronisti di sinistra. Il che costituisce una bella iniezione di fiducia (si fa per dire): chiunque vada al potere, i conti pubblici non miglioreranno mai.
Attenti, perciò, a non scherzare troppo con l’equazione superdebito pubblico=democrazia, a non giocare troppo con il binomio che ha generato sconquassi, morali prima che socio-politico-economici, in mezzo mondo. I sudditi ragionano così, peronianamente ossia populisticamente. Gli spiriti più responsabili, invece, vogliono governanti che sappiano amministrare il bene pubblico con la stessa oculatezza e serietà che adopererebbero (si ritiene) nel gestire i loro beni privati. 

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