Le parole sono inutili e inespressive di fronte ai corpi devastati di 16 nostri fratelli morti per amore della vita e della loro famiglia. Dovremmo conoscere i loro nomi, la loro storia - la loro narrazione come dicono i sociologi - per capire qualcosa delle loro esistenze finite tra le lamiere su due strade del distretto agroalimentare più ricco e produttivo del Mezzogiorno. Simone Weil ci direbbe: solo condividendo con la propria vita le tragedie degli altri potremmo capire qualcosa dei drammi umani. Solo accettando di vivere la stessa esperienza con le stesse motivazioni che la determinano possiamo sperare di trovare qualche parola giusta da pronunciare e scrivere.
È sorprendente l’uso spregiudicato del pur povero vocabolario dei politici che, in questa come in altre circostanze, ricorrono a frasi fatte («rispettare la dignità del lavoro», «servono più controlli», «occorre combattere il caporalato») per occupare la postazione migliore nella retorica. Solo il silenzio sarebbe veramente espressivo. Le parole autentiche possono sgorgare da una mente razionale e da un cuore caldo solo dopo il ri-conoscimento dell’altro come persona a noi cara, che ci sta a cuore perché la sua esperienza dolorosa di lavoro, fatica e sacrificio ci appartiene come unica umanità.
Vorremmo conoscere nomi e storie, anche per non dimenticarli subito, una volta girata la pagina del giornale. E avere i loro volti incorniciati insieme a quelli delle loro famiglie, dei genitori, dei figli e di tutti coloro che fino a ieri speravano in un ritorno gioioso.
Questi sentimenti non sono solo dei nostri concittadini. Anche noi pugliesi abbiamo avuto le nostre apocalissi del lavoro e della sventura. L’8 agosto 1956 nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle in Belgio scoppiò un incendio devastante. Morirono asfissiati 61 italiani, molti pugliesi soprattutto salentini. Ogni anno in alcuni comuni si ricordano ancora i morti a causa del lavoro e delle tragedie che colpiscono soprattutto i più fragili e i più poveri. Sempre con grande dignità.
I morti di Foggia non interessano, o almeno non dovrebbero interessare, solo gli altri. Cioè le loro famiglie lontane e i Paesi dai quali sono partiti. Interessano anche e soprattutto noi, perché solo condividendo l’esperienza delle tragedie potremo cominciare a conoscere rivalutando la nostra stessa umanità. La lezione è solo una: disfarsi di pregiudizi e ignoranza, guardare in faccia l’immigrato, dirgli che la sua vita ci interessa come la nostra e cominciare insieme a parlare di protezione e di sicurezza. Tutto il resto è straccio vecchio, frase inerte, estremismo parolaio usato per nascondere non solo la verità e il principio di realtà, ma anche le proprie debolezze e inefficienze organizzative.
La nostra Puglia è al centro della sventura. Il lavoro è considerato solo un fatto economico e sociale. Un errore terribile, oltre che grossolano. La nostra vita è il lavoro. La nostra forza morale è nel coraggio di affrontare impegni e sacrifici quasi sempre per donare agli altri e non solo per automantenersi. Quando incontriamo un immigrato che raccoglie pomodori e fa lavori nelle nostre campagne dobbiamo pensare all’energia morale di questa persona che ha lasciato paese e famiglia per poter mettere da parte qualcosa da donare al ritorno. Il ministro Salvini è stato in Puglia per dichiarare guerra all’immigrazione, anche a quella che proviene da Bulgaria e Romania?
Salvini è un politico ormai di lungo corso, viene da una terra laboriosa come la Lombardia. Aiuti la Puglia a ritrovare la sua profonda umanità, sostenga le aziende agricole che vogliono distinguersi per virtù e per civiltà di accogliere i lavoratori ospiti, premi i processi produttivi fondati sui valori umani e lotti per la trasparenza delle filiere agroalimentari in modo che gli italiani sappiano se nei supermercati stanno comprando prodotti coltivati rispettando i diritti sociali dei lavoratori.
Noi pugliesi abbiamo molto lavoro da fare. Le classi dirigenti la finiscano di lanciarsi stracci peraltro sporchi e maleodoranti. Siano meno bellicosi e più impegnati. Il sindacalista Aboubakar Soumahoro ha invitato il vice premier Luigi Di Maio: «Venga tra di noi e capirà». Nel grande reticolo produttivo dell’agricoltura di Capitanata coesistono e si accavallano gruppi di diversa umanità. È una grande fabbrica sociale all’aperto. Sia quando il sole batte forte sui corpi e disorienta le menti sia quando piove in modo fitto il lavoro continua e l’intera umanità dei campi insiste con i gesti e l’attenzione richiesti. Quella di Capitanata è una marea umana di prossimità. Immigrati, proprietari, caporali e volontari della Caritas si conoscono e quasi vivono in prossimità, ciascuno con il proprio progetto e con la propria speranza. Molti nodi di questa rete umana e sociale sono soggetti alla corruzione a causa anche della scarsità delle risorse destinate alla distribuzione tra i diversi livelli. Ma un buon lavoro di collaborazione proattiva, tra politici, aziende e rappresentanze sociali, sarebbe la risposta migliore e più civile alla tragedia di 16 morti per lavoro. Mostrarsi bellicosi porta un titolo di giornale. Essere fattivi andando incontro agli altri e discutendo del nostro e del loro futuro farebbe della Puglia, da terra di apocalisse dei nuovi braccianti, una regione civile. Mai come in questa fase storica ci è richiesto non solo una capacità di convivenza: farci carico della vita degli altri significa rispettare soprattutto la nostra vita e alimentare la nostra speranza ad affrontare con coraggio il futuro.