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I gusti dei dittatori tra cucina e «note»

 
Emanuele Arciuli

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Emanuele Arciuli

I gusti dei dittatori tra cucina e «note»

È complicato scrivere di musica e altre amenità come se nulla fosse, in uno scenario internazionale dilaniato da venti di guerra e atti terroristici, e da letture inevitabilmente superficiali di una realtà talmente complessa che andrebbe studiata a fondo, ma della quale spesso ci accontentiamo di riassunti approssimativi

Martedì 10 Ottobre 2023, 12:41

È complicato scrivere di musica e altre amenità come se nulla fosse, in uno scenario internazionale dilaniato da venti di guerra e atti terroristici, e da letture inevitabilmente superficiali di una realtà talmente complessa che andrebbe studiata a fondo, ma della quale spesso ci accontentiamo di riassunti approssimativi.

Giorni fa, in una libreria di Seregno, dov’ero impegnato nella giuria di un concorso pianistico, ho comprato un libro di particolare interesse, almeno per me.

Si chiama Come sfamare un dittatore (Keller editore), sottotitolo: Saddam Hussein, Idi Amin, Enver Hoxha, Fidel Castro, Pol Pot visti attraverso gli occhi dei loro cuochi. Scritto da un giornalista polacco, Witold Szablowski, è un libro di piacevolissima lettura per lo stile scorrevole (merito anche della traduttrice Marzena Borejczuk) e denso di humour. Ma è soprattutto uno spaccato inquietante sul mondo di oggi, nel quale le dittature sono tutt’altro che superate; all’epoca della pubblicazione del libro, e cioè nel 2019, se ne contavano quarantanove, stando al rapporto dell’organizzazione americana Freedom House, ma pare che siano in costante aumento.

Non si tratta, naturalmente, di un ricettario, ma di un reportage giornalistico realizzato in anni di ricerche, con le comprensibili resistenze dei cuochi, preoccupati di alludere a situazioni e contesti da cui avevano preso le distanze con fatica e sofferenza. Peraltro si tratta dei pochi cuochi superstiti, visto che altri sono stati ammazzati.

E però è curioso come alcuni di loro non siano del tutto “guariti” da una fascinazione che era il frutto della personalità carismatica che taluni di questi leader sanguinari possedevano, ma anche di quella soggezione psicologica, dovuta alla paura (diciamo pure al terrore) che può trasformarsi, come nella sindrome di Stoccolma, in una sorta di attrazione. Così, ad esempio, la cuoca di Pol Pot, Yong Moeun, all’incredulo giornalista polacco, dichiara di essere ancora “ammaliata dal suo sorriso”, riferendosi a un dittatore che fece uccidere centinaia di migliaia di persone, in Cambogia, ma che era pure noto come “Materasso”, per la sua capacità di mediare le tensioni e le diatribe politiche e personali. Un materasso piuttosto scomodo, diciamo, ma tant’è.

Ci sono anche pagine in cui di questi personaggi si colgono le miserie, che sarebbero comiche se non fossero tragiche, come quando Enver Hoxha fece uccidere i suoi compagni di studi, perché a distanza di anni non voleva che si sapesse che, a scuola, era un asino.

O situazioni surreali, come quando il Signor K. (nome kafkiano, in realtà pseudonimo di un cuoco albanese che, avendo cambiato vita, non vuole si risalga alla sua reale identità) racconta che, per anni, ogni santo giorno, dopo aver cucinato, doveva entrare in una stanza, detta “dell’autocritica”, nella quale fare – appunto – autocritica, perché l’umiltà era l’unica possibilità per salvarsi la vita (dichiarare che il suo pasto era esente da difetti sarebbe stata una sfida alla perfezione che il solo “compagno Enver” poteva vantare).

Naturalmente i dittatori mangiano (anzi pare che Idi Amin fosse addirittura cannibale). Mi chiedo, talvolta, se ascoltino musica. E sarebbe interessante che qualcuno ci raccontasse i dittatori visti attraverso le loro scelte non culinarie, ma culturali. Avremmo forse delle sorprese, ma in definitiva sono anche certo che riceveremmo conferma del fatto (o è solo una speranza?) che no, non ascoltano musica di qualità. Perché la musica ci rende migliori.

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