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Ugo Sbisà
07 Luglio 2020
Ci voleva Bari, con la cerimonia di apertura dei Mondiali di Italia ’90, perché Ennio Morricone si vedesse offrire l’occasione che sino ad allora gli era stata negata: dirigere un concerto di proprie musiche in un teatro importante come il Petruzzelli. Per lui, che da sempre professava l’idea della «musica pura», slegata cioè dalla dittatura delle immagini, si trattò di un momento ambìto, realizzatosi grazie a Gianluigi Trevisi e al suo festival Time Zones, del quale il maestro romano sarebbe poi diventato presidente onorario stringendo con Bari un rapporto quasi sentimentale.
Era la sera dell’8 giugno del 1990 quando Morricone, per una volta tradendo quell’indolenza tutta romana che in parte gli apparteneva, prese le «redini» dell’Orchestra della Provincia (l’attuale Sinfonica metropolitana) per condurre l’affollatissima platea del Petruzzelli in un viaggio fantastico attraverso le sue colonne sonore, arricchito dalla presenza del soprano Alide Maria Salvetta, di due trombettisti di rango, l’«anziano» Cicci Santucci e un giovanissimo Fabrizio Bosso e dai flauti di pan del Trencito de Los Andes. Ed è proprio quel ricordo, unico e indimenticabile, a riaffiorare alla memoria ora che il maestro non c’è più, ora che se n’è andato in punta di piedi, un po’ com’era nel suo carattere schivo, alieno da ogni forma di divismo. Non a caso, si è congedato con una lettera a dir poco commovente nella sua disarmante semplicità.
Insieme con Nino Rota, ma anche con Ortolani, Piccioni, Trovajoli, Umiliani – giusto per ricordarne alcuni – Morricone aveva rappresentato una delle punte più alte di una scuola compositiva italiana di musica per il cinema, alla quale ai nostri giorni appartiene anche Nicola Piovani. E riesce sinceramente difficile accettare l’idea che questa sua «grandezza», quel talento unico di rendere indimenticabile un’immagine anche con un singolo suono – si pensi al fischio di Alessandro Alessandroni in
Per un pugno di dollari – gli andassero quasi stretti, perché malgrado la fama e la ricchezza, lui non dimenticava di essere stato allievo del grande Goffredo Petrassi e di aver persino preso parte alle sperimentazioni avanguardistiche del gruppo romano di Nuova Consonanza, prima di scegliere la via della musica leggera e del cinema. E gli sarebbe piaciuto, forse anche tanto, tornare a occuparsi di quel genere che proprio Petrassi gli rimproverava di aver abbandonato perché costringeva a vivere di stenti chi lo praticava. Ma la vita è fatta così e, per quanto la cosa faccia specie, anche i grandi devono sapersi «accontentare» ed anzi, hanno il preciso dovere di applicare il proprio talento a ciò che sanno fare meglio. E così fu anche per Morricone, che cominciò a lavorare come trombettista nei night sin da ragazzo, quando era ancora studente, prima di approdare agli studi della Rca: un lavoro ingrato il suo, quello di arrangiatore, incaricato di «vestire» con orchestrazioni sontuose brani leggeri spesso insignificanti, ma fu proprio questo il primo banco di prova che gli consentì di affinare la propria scrittura, pur senza mai comporre temi propri, con la sola eccezione di un non memorabile Pel di carota per Rita Pavone. Il Morricone autore di canzoni si sarebbe rivelato con Se telefonando, che divenne un brano di successo grazie all’interpretazione di Mina, ma non sarebbe giusto tralasciare che in ogni caso negli Anni ‘60 i suoi arrangiamenti contribuirono al successo di Sapore di Sale di Gino Paoli oltre che della maggior parte di brani di Edoardo Vianello.
E poi la consacrazione del cinema, innanzitutto grazie al sodalizio col grande Sergio Leone, suo amico d’infanzia, col quale si può dire che avesse raggiunto lo stesso tipo di sintonia artistica che c’era tra Rota e Fellini, al punto tale che tanto la cosiddetta «Trilogia del dollaro», quanto la «Trilogia del tempo» sarebbero ben poco cosa senza quelle inimitabili colonne sonore. Eppure fu proprio Leone, con una di quelle affettuose «carognate» che solo gli amici sanno riservare, a mandargli per aria una collaborazione prestigiosissima: partecipare alla colonna sonora di Arancia Meccanica. Leone disse a Kubrick che il maestro era ancora impegnato con lui e non era vero, ma per fortuna quell’occasione sfumata non ne scalfì minimamente la reputazione internazionale.
Parlare delle colonne sonore di Morricone significa parlare di almeno sessant’anni di storia del cinema e, se ognuno ha le proprie preferenze, è indiscutibile che, insieme con quelle scritte per Leone, i temi di pellicole come Metti una sera a cena (Patroni Griffi, 1969), Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970), Mission (Joffè, 1986), Gli intoccabili (De Palma, 1987), Nuovo Cinema Paradiso (Tornatore, 1988) e l’elenco potrebbe proseguire a lungo, sono ormai diventati del classici al pari delle romanze di Verdi e di Puccini, sì, proprio così e affermarlo è tutt’altro che dissacrante e scandaloso.
Perché se qualcosa di veramente scandaloso c’è, riguarda il ritardo indecente col quale, dopo la prima candidatura del 1979, l’Academy abbia insignito Morricone dell’Oscar alla carriera (era il 2007), quando in quell’intervallo di quasi trent’anni avrebbe potuto premiarlo per dei veri capolavori anziché celebrarne tardivamente la carriera, per poi recuperare nel 2016 con The Hateful Eight di Quentin Tarantino, una bella colonna sonora, ma certo non all’altezza di quelle del passato.
Per lui, che aveva detto no persino alla proposta di De Laurentis di trasferirsi a Hollywood, la musica tutta, anche quella grande, grandissima che usciva dalla sua penna era sempre artigianale e come tutti gli artigiani sosteneva che dovesse innanzitutto piacergli e soltanto dopo incontrare il gusto del regista e del pubblico. E la viveva con un metodo, una regola quasi francescani. In un incontro promosso da Time Zones, qualcuno gli chiese come fosse la giornata tipo di un compositore della sua fama. La risposta fu disarmante: «Ha inizio con il risveglio e la sbarbatura e poi va avanti come se si fosse in ufficio: si lavora tutta la mattina, si pranza, si riposa, si riprende a lavorare, si cena e si va a letto». Un modo come un altro per sottolineare che non serve trasgressione per essere geniali. Una lezione per la vita, anche oltre la musica.
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