A tutte le età e in ogni sistema di istruzione, ordine e grado, bambini e giovani crescono con l’immagine di un insegnante giudice. A chi piace essere giudicato?
Ciascuno di noi è capace di esprimere sé stesso liberamente e serenamente se non vive la pressione del giudizio e della valutazione. E scopre il proprio valore e i propri talenti in un contesto di ricerca e curiosità, in cui può sperimentare accogliendo i risultati. Che siano successi o fallimenti, integrandoli nell’esperienza, come naturale conseguenza.
Il nostro sistema scolastico porta naturalmente all’ansia da prestazione, poiché tutto il processo di apprendimento è focalizzato sulla valutazione e sul giudizio, sia esso positivo o negativo.
Troppo spesso i nostri figli tornano a casa affermando di non aver compreso una spiegazione, di non aver capito i compiti e ci costringono a creare chat ed estenuanti telefoni senza fili, vere e proprie catene di confronto – peraltro spesso inutili e dannose – per recuperare le informazioni sulle richieste degli insegnanti. Non di rado, bambini sempre più piccoli, manifestano ansia e panico da scuola, piangono se sbagliano le consegne e hanno mal di scuola già dalla seconda e terza elementare. Sempre più spesso nel sistema universitario, gli studenti sono abbandonati a sé stessi, in veri e propri labirinti per organizzare lezioni, esami, tesi, trovare tutor didattici, professori di riferimento che possano essere a disposizione per coloro che cercano di impegnarsi e spesso sono trascurati e disattesi, come se rispondere alle loro aspettative fosse una concessione straordinaria.
I professori non sono visti come dei tutor, dei facilitatori dell’apprendimento, degli allenatori del sapere o accompagnatori nella ricerca e nella scoperta della conoscenza. Sono percepiti come un pericolo da evitare, a cui nascondere le proprie perplessità, dubbi o bisogni. La relazione che spesso si instaura tra docenti e discenti è di profonda distanza, di timore, in cui mantenere a tutti i costi una facciata di perfezione, fingendo di sapere, anche quando non si sa e di non avere bisogno di nulla, anche quando ci sarebbe la necessità di chiedere aiuto e approfondimento, poiché farlo li espone alla paura del giudizio.Quanti di noi si sono sentiti liberi di rispondere “non ho capito” alla domanda “tutto chiaro”?
Perché il ruolo percepito non è quello di supporto e sostegno all’apprendimento o all’educazione, dove il coach allena e guarda il proprio allievo con la fiducia di chi crede nelle potenzialità di un talento che ha intravisto, che fa il tifo per lui, quanto piuttosto il ruolo del giudicante a cui il giudicato è giornalmente sottoposto. Perché per trovare la fiducia in sé stessi, i ragazzi hanno prima bisogno di riceverla dai modelli di adulti con cui sono in relazione di affetto e di stima.
Come restituire, dunque, all’errore il valore intrinseco che esso porta con sé? Perché in qualunque cosa si faccia è proprio la disponibilità a sbagliare che espone il soggetto a crescere, a conoscersi, a vedere e riconoscere positivamente i propri limiti per accoglierli con serenità e per provare a migliorarsi.
I sistemi scolastici di successo focalizzano la centralità del processo di istruzione nell’apprendimento stesso, lasciando che la valutazione e il giudizio siano una parte importante ma non centrale dell’esperienza di educazione e della crescita dello studente che viene stimolato se incuriosito, anche grazie al suo protagonismo attivo nel percorso. Soggetti e non oggetti di educazione. Utenti attivi e non passivi, fruitori di un servizio che li forma per la vita nel bene o nel male.