Da quando è esplosa la pandemia, in Italia sono vertiginosamente diminuite le adozioni. Le possibilità di adottare e sciogliere pratiche in attesa, ma anche il numero di richieste: andato a picco. Questo dato, a suo modo comprensibile, è anche molto impressionante. Racconta di una metamorfosi di attitudine che dovrebbe interpellarci e farci riflettere, tutti. Naturalmente, nessuno immagina che il desiderio – sia quello di avere figli, sia quello di aiutare bambini senza genitori – possa essere mutato nella sua natura più profonda. Ma mutate sono le possibilità e, viene da pensare, in certa misura mutata è la disposizione. L’intento.
Viene da pensare agli effetti della pandemia. Quanto il trauma della chiusura che il mondo ha conosciuto per arginare i contagi di Covid ci ha cambiati, trasformati nel profondo? Senza dubbio, l’esperienza ha stravolto il mondo intero per un tempo sufficientemente lungo da avere trasformato in maniera radicale il nostro modo di essere.
Anche è cambiato il modo di essere generosi, aperti, disposti all’accoglienza. I ricordi del lockdown sono ormai piuttosto lontani nel tempo, ma pochissimo rielaborati; ed è difficile, ancora molto difficile, considerarne gli effetti sulla psicologia collettiva nella lunga durata. Certo, si può immaginare e ci si può augurare che tanti aspetti della vita abbiano ripreso il loro corso, che tornino a essere uguali a «prima».
Che tante coppie in attesa di potere adottare un figlio, di nuovo e finalmente possano esaudire i loro progetti – e bambini di tanti luoghi del mondo possano trovare famiglie pronte ad accoglierli, con gioia, calore, moltissimo amore. Certo. E tuttavia, sembra che i nuclei famigliari siano ancora stravolti dall’esperienza dell’essere stati chiusi. Un trauma incomincia il suo processo di guarigione se e quando se ne può misurare il segno; le ferite si rimarginano solo a partire dal momento in cui affiorano in superficie. Allora e solo allora siamo in grado di considerarne la gravità, le proporzioni. Quanto e cosa abbiamo compreso, del trauma dei nostri lockdown? Continuo a incontrare persone che parlano di quel periodo con toni diversi: affranti, o invece positivi, perché per qualcuno quella della chiusura in casa obbligata ha corrisposto con una fase felice, di lavoro forsennato, o di ritrovata armonia domestica, o di nuovi orizzonti nell’individuazione di sé stessi, secondo gradi di consapevolezza nuovi.
Ma la nostra apertura agli altri, il nostro metterci in gioco nei termini di quella dinamica centrale del vivere che è la generosità, quanto è stato scalfito da questa brutale e intensissima esperienza collettiva? Quanto sono cambiati – per usare il lemma simbolo di questa rubrica – i nostri cuori? Certamente il diminuire delle adozioni sarà da legarsi a maggiori complessità nella già complessissima burocrazia preliminare all’adottare un bambino. Ma viene istintivamente da pensare anche a un diverso atteggiamento da parte degli aspiranti genitori, dato che a essere in calo negli ultimi tre anni è stato soprattutto il numero di richieste di adozione. Possibile che uno stato di «chiusura» in senso fisico, ovvero l’esser stati tassativamente costretti a vivere tra quattro mura, abbia significato il divenire molto più chiusi come esseri umani? Molto induce a pensarlo. E molto, diciamolo, di questa condizione psicologica di chiusura generalizzata stupisce e preoccupa. Si aggiunge, nel caso dell’Italia, un nuovo assetto governativo che di certo avrà tra i suoi capisaldi di propaganda politica quello di un rinnovato ostracismo nei confronti di stranieri migranti. Altro discorso dal tema delle adozioni, altra temperie, ma anche qui, una chiusura che si avverte e moltissimo si avvertirà nell’aria.
La vita virtuale, lo stare fissi e imbozzoliti dalla mattina alla sera davanti ai nostri computer e smartphone ovviamente peggiora questo stato di cose, impesta l’atmosfera di uno stato sociale tutto improntato sul «pensa a te», «fai da te», «pensa per te». Tempo sarebbe di elaborare i traumi, comprendere l’entità del danno psichico che i lockdown hanno comportato. Trovare forme di umanità nuove; tornare a guardare agli altri con un cuore meno impaurito e meno rimpicciolito. Esistiamo incontrando gli altri, esistiamo perché possiamo dare molto agli altri e molto dagli altri ricevere. Verità di un’evidenza quasi ingenua, lapalissiana; e che tuttavia in moltissimi, e moltissima parte della società, sembrano avere perduto di vista. Meglio sarebbe cominciare a pensarci, a parlarne, a riflettere, elaborare, ricostruire. Il futuro è solidale; chi non lo vede, non vede.