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Ex operai Ilva «mobbizzati»: Palazzina Laf simbolo della vergogna

 
Redazione online

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Il coraggio di Palazzina Laf: non nascondere la verità

Dibattito a Taranto. Il pm che indagò: costretti a ozio forzato

Lunedì 14 Ottobre 2024, 20:47

TARANTO -  «La palazzina Laf ha rappresentato non solo per Taranto, ma per tutta l’Italia, una vergogna. La vicenda che ha riguardato un gruppo di lavoratori relegati in un luogo fatiscente perchè ritenuti scomodi o sindacalizzati o che non accettavano il demansionamento doveva rappresentare in tutto lo stabilimento un esempio per condizionare anche le scelte aziendali. Noi lavoratori dovevamo abbassare la testa e subire le imposizioni del datore di lavoro, condizioni chiaramente fuori legge». Così Claudio Virtù e Giuseppe Palma, due tra i 79 dipendenti del Siderurgico che nel 1997, all’epoca della gestione dei Riva, furono confinati in una struttura definita lager, la palazzina Laf (Laminatoio a freddo), senza svolgere alcuna mansione.

Virtù e Palma hanno portato la loro testimonianza nel corso dell’incontro dal titolo «Taranto, la storia oltre il cinema. Palazzina Laf» che si è svolto nella sala Agorà della biblioteca civica Acclavio di Taranto. Al dibattito, moderato dal giornalista Tonio Attino, erano presenti Alessio Coccioli (attualmente procuratore a Matera), il magistrato che all’epoca condusse l’inchiesta giudiziaria con il procuratore aggiunto Franco Sebastio, scomparso a gennaio dell’anno scorso; Carlo Vulpio, inviato del Corriere della Sera, che nel 2009 dedicò il libro «La città delle nuvole» a Taranto, al suo dramma ambientale e umano; e Marisa Lieti, la psichiatra che seguì i lavoratori e denunciò pubblicamente la loro situazione di 'confinati'.

L’inchiesta portò alla condanna definitiva di undici imputati (dirigenti, capi e il proprietario dell’Ilva, Emilio Riva) per tentata violenza privata. «Sicuramente - ha detto il procuratore Coccioli - è stata una indagine unica. All’epoca era un fatto nuovo. C'erano pochissimi casi analoghi. Un caso unico perchè si è parlato tanto di mobbing ed effettivamente lo era, ma non fu trattato come mobbing, almeno all’inizio. Il problema era proprio la valutazione del reato perchè i lavoratori erano pagati sostanzialmente per non fare nulla, costretti a una situazione di ozio forzato. Mi colpì la dichiarazione di uno di quei lavoratori. Gli chiesi: ma lei cosa lamenta se viene pagato lo stesso? Mi rispose: io non sono un gambero. Io voglio andare avanti, non indietro. Sono un lavoratore specializzato. Non possono togliermi la dignità». 

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