Sabato 06 Settembre 2025 | 15:10

Un dizionario nuovo e un metodo vecchio

 
Rosario Coluccia

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Rosario Coluccia

Evviva il dizionario (non è solo elenco)

Venerdì 21 Giugno 2024, 09:42

«I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadriploni, sebbene il Re Cattolico non li abbia ancora monetati: e tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d’uso corrente, o d’uso raro rarissimo. […] E in lingua nostra, che la parola si può stirare, contrarre e metastatare (palude, padule: femminile e maschile) secondo libidine. […] Dò palla bianca a una collazione e a un uso ragionevole di tutte le varianti ortoepiche: non voglio mollare né palude né padule».

Queste parole scriveva Carlo Emilio Gadda intervenendo in una discussione avviata dalla pubblicazione, nel 1941, del Vocabolario della lingua italiana, vol. I (A-C), stampato a cura della Reale Accademia d’Italia con il coinvolgimento di linguisti del calibro di Giulio Bertoni e Clemente Merlo (e altri meno illustri). Un tentativo (mai portato a termine perché il vol. I rimase l’unico pubblicato) del regime fascista di dotare la nazione di un vocabolario che fosse diretta emanazione del potere politico, implicitamente mirante a sostituire la gloriosa tradizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, opera giudicata d’impianto puristico (pur se mitigato) e pertanto ritenuta inadatta ai tempi. Il Vocabolario dell’Accademia d’Italia fu subito recensito da Mario Meschini, direttore della rivista «La Ruota», che ne mise in luce i limiti, in un articolo intitolato Un dizionario nuovo e un metodo vecchio. Negli anni 1941-1942 «La Ruota» ospitò un dibattito di grande interesse, nel quale intervennero linguisti, letterati, scrittori, intellettuali di diversa estrazione e di ottima caratura, accomunati dall’esigenza di aprire una fase nuova di riflessione sulla lingua e sulla storia culturale italiana (gli interventi sono raccolti nel vol. Lingua letteraria e lingua dell’uso. Un dibattito tra critici, linguisti e scrittori («La Ruota» 1941-1942), a cura di Giuseppe Polimeni, Firenze, Accademia della Crusca, 2013).

Tra questi Gadda, con un saggio che contiene la frase «I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze; e voglio anche i triploni, e i quadriploni […]» riportata in apertura di questo articolo. Mostra come egli viveva il suo rapporto con la lingua, elemento da sfruttare nella sua estrema duttilità per esprimere la complessità del pensiero umano. La stessa frase campeggia in un pannello della mostra Cantieri di Gadda. Il groviglio della totalità (Milano, Politecnico, Spazio Guido Nardi, 13 giugno – 11 ottobre 2024), ideata a coronamento delle iniziative legate al cinquantenario della morte di Gadda. Ne sono curatori Mariarosa Bricchi, Paola Italia, Giorgio Pinotti, Claudio Vela (del «Centro Studi Gadda», Università di Pavia) e Roberto Dulio, Massimo Ferrari, Claudia Tinazzi (del Politecnico di Milano). La compartecipazione attiva (e splendidamente riuscita) di competenze umanistiche (Centro Gadda) e scientifiche (Politecnico) riflette la personalità di Gadda (Milano 1893-Roma 1973), negli anni dieci del Novecento studente di ingegneria al Politecnico, nel 1915 volontario nella prima guerra mondiale, prigioniero in Germania, nel 1920 laureato in ingegneria elettrotecnica (professione esercitata in Italia e all’estero fino al 1949), nel 1926 collaboratore della rivista fiorentina “Solaria” con saggi e racconti, poi sempre più intensamente dedito all’attività letteraria e autore di romanzi che rappresentano veri capolavori della letteratura italiana: La cognizione del dolore (pubbl. su rivista tra il 1939 e il 1941; in volume nel 1963 e con aggiunte nel 1970), Quer pasticciaccio brutto di via Merulana (su rivista tra il 1946 e il 1947 e in volume nel 1957), giallo senza soluzione ambientato nella Roma del 1927 (forse la sua opera più nota, anche grazie alla miniserie televisiva andata in onda in 4 puntate nel 1983) e, tra le opere dell’ultimo periodo, il saggio-pamphlet Eros e Priapo (1967) sulla retorica del regime fascista.

Non si fanno graduatorie, quando si parla di grandissimi. Certo Gadda è tra i grandi novatori della narrativa novecentesca, creatore di uno stile linguistico che arriva a fondere lingua nazionale, forme dialettali e usi gergali, dando vita a una prosa complessa in cui Gianfranco Contini individuava il punto d’arrivo della linea del plurilinguismo che attraversa, seppur in posizione marginale, l’intera storia della letteratura italiana. Lo scrittore usa sapientemente le più svariate risorse linguistiche (italiano antico, latino, greco, dialetti, lingue straniere, linguaggi settoriali), di continuo dà vita a neoformazioni o a neologismi semantici. La mescolanza di elementi disomogenei produce una prosa che spesso dichiara intolleranza nei confronti della corruzione diffusa e indignazione nei confronti di una storia che tradisce la cultura e le scelte morali. Con il suo stile linguistico unico, caratterizzato da una originale convergenza di sensibilità umanistica e di approccio tecnico-scientifico, Gadda ha profondamente influenzato la storia della letteratura, imponendosi come uno degli autori più creativi e illustri del Novecento, la cui opera innerva profondamente gli anni Duemila.

Ho avuto la fortuna di ammirare la mostra il giorno stesso dell’inaugurazione, entrando nell’officina dello scrittore e recuperando, attraverso un itinerario visivo fatto di carte e manoscritti autografi, esemplari di libri e di articoli, foto, mobili e oggetti (compresi gli scarponi infangati da lui indossati nelle trincee della prima guerra mondiale), il percorso biografico e intellettuale di un protagonista della cultura del secolo in cui convivono sapere tecnico-scientifico, lingua, letteratura e filosofia.

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