«Totò, Peppino e la Malafemmina è un film del 1956. In un episodio famoso, i due protagonisti meridionali, partiti alla volta di Milano allo scopo di sottrarre l’ingenuo nipote alle mene di una affascinante giovane settentrionale, approdano in piazza Duomo; per conoscere l’indirizzo della maliarda, apostrofano un vigile con le celebri frasette: «Dunque, excuse me, bitte schon… Noio ... volevam …volevan savoir …- l’indiriss … ja» e, alla risposta del vigile, esclamano compiaciuti «Bravo, parla italiano!», meravigliandosi delle capacità linguistiche dell’allibito interlocutore.
Il dialogo intendeva sottolineare la distanza linguistica che separava i due mondi, quello dell’Italia del Nord e quello dell’Italia del Sud, a metà degli anni cinquanta del secolo scorso; al punto che i due napoletani ritenevano del tutto naturale che a Milano si parlasse una lingua straniera. Una scenetta del genere oggi sarebbe improponibile, perché lontanissima dalla realtà effettiva della nostra nazione: dopo oltre 150 anni dal raggiungimento dell’unità politica, solo da pochi decenni, per la prima volta nella storia, l’Italia è unita anche linguisticamente e un italiano fondamentalmente unitario, pur se regionalmente variato, è patrimonio comune a Catania e a Torino, a Milano e a Lecce, a Roma. Questo salutare e benefico cemento comunicativo unificante è - come si diceva prima - acquisizione relativamente recente, successiva alla seconda guerra mondiale, diciamo dell’Italia repubblicana degli ultimi sessanta o settant’anni (più o meno).
Bisogna scrivere a chiare lettere che l’italiano, a volte claudicante ma finalmente diventato patrimonio comune, è elemento distintivo della nostra storia e rappresenta un bene prezioso per almeno due motivi. In primo luogo la lingua è fattore primario dell’identità nazionale: è inscindibile il nesso tra lingua e nazione ed è fondamentale il ruolo che la lingua ha storicamente svolto nel processo di formazione dello stato unitario. In secondo luogo la lingua è lo specchio e la sedimentazione della nostra cultura, come si è sviluppata nel corso dei secoli, generazione dopo generazione. La lingua che oggi adoperiamo nello scrivere e nel parlare è una lingua profondamente legata, nelle strutture e nel lessico, alla letterarietà tradizionale: quest’ultima affermazione può sembrare paradossale, ma è un dato di fatto. Formatosi in buona parte prima che Dante incominciasse a scrivere e consolidatosi con i grandi del Trecento, quasi tutto il lessico fondamentale che adoperiamo nello scritto e nel parlato è costituito da parole filtrate attraverso l’uso letterario, che si sono continuate fino ad oggi grazie al carattere particolarissimo, aristocratico e selettivo, qualcuno ha detto oligarchico e antipopolare, della nostra storia culturale.
Una fase decisiva di snodo si è verificata nel secondo Novecento. Nei primi anni della Repubblica (nata ottant’anni fa) la necessità di sviluppare la scolarità era evidente. Reclamato da intellettuali attenti e appassionati, condiviso dal ceto politico e dai governi del tempo, l’obiettivo di un’adeguata istruzione obbligatoria e generalizzata fu acquisito da gran parte della popolazione: contadini e operai capirono che l’istruzione era veicolo fondamentale per il progresso individuale, si accorsero che la laurea si rivelava un formidabile ascensore sociale, constatarono che i figli dei poveri (se studiavano) potevano migliorare la loro condizione. Il cammino verso l’italiano, favorito dalla scolarizzazione delle fasce giovanili, fu rinforzato da altri fattori: il passaggio dalla società agro-pastorale alla società industriale, le migrazioni interne verso le grandi città settentrionali, da tutto il Sud e anche da regioni povere del Nord (Friuli, zone del Veneto, valli alpine), che portarono masse di dialettofoni a ricercare una lingua comune; la partecipazione alla vita dei partiti e dei sindacati, che non fu solo politichese, sindacalese e brogli, ma anche promozione culturale e sociale. L’italiano è diventato lingua nazionale grazie allo sviluppo dell’insegnamento scolastico e delle relazioni sociali, grazie alle migrazioni di Rocco e dei suoi fratelli (inurbati tra mille difficoltà) e di milioni di uomini e donne diretti verso le fabbriche del Nord, con le valigie di cartone e parlando dialetto. E, in maniera decisiva, grazie ai mezzi di comunicazione (giornali, radio e televisione) e grazie al cinema che ha contribuito alla formazione della lingua parlata e scritta dagli italiani e ha rappresentato la società italiana nella varietà delle sue manifestazioni e delle sue tradizioni: comunicazione, arti visive, turismo, moda, costume.
Quanto è influenzata la lingua nazionale dal cinema? È possibile distinguere la comunicazione filmica dagli altri modelli espressivi (scritto, parlato, teatro, televisione)? Come si rapporta il mezzo cinematografico con la letteratura? Quali sono i caratteri distintivi di un movimento come la Commedia all’italiana?
Dal 3 all’8 giugno 2025 si terrà la prima edizione del «Festival internazionale del Cinema di Pompei», concepito allo scopo di esplorare le diversità culturali della società italiana che si esprimono attraverso il cinema, nato sotto l’egida del «Ministero della Cultura, Direzione Generale Cinema e Audiovisivo», con il patrocinio e con la partecipazione di Enti e Istituzioni varie, tra cui l’Accademia della Crusca. Il 19 dicembre scorso il Festival è stato presentato a Roma, alla Casa del Cinema: ne hanno parlato Annarita Borelli, cui si deve l’idea progettuale e la gestione, Enrico Vanzina, direttore artistico, e chi firma queste righe.
La rubrica «Parole, parole, parole» va in vacanza per alcune settimane, riprenderà il prossimo anno