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Se il silenzio è memoria di un viaggio dal Sud

 
Oscar Iarussi

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Oscar Iarussi

Se il silenzio è memoria di un viaggio dal Sud

L'atlante sentimentale di Giuseppe Lupo nel nuovo romanzo edito da Marsilio

Domenica 16 Febbraio 2020, 11:47

«L’unico esercizio che mi interessava era scoprire i segreti che mettevano in fila le parole sulle labbra degli adulti... Ogni frase pareva un ponte sospeso sull’abisso. L’abisso era il silenzio e le parole erano appese al filo che ci penzolava sopra». L’abisso era il silenzio... Una struggente confessione e insieme una promessa di riscatto aprono il nuovo romanzo di Giuseppe Lupo, Breve storia del mio silenzio, edito da Marsilio (pp. 202, euro 16,00). Lucano originario di Atella e milanese di adozione, classe 1963, Lupo è italianista fra i più apprezzati, docente di Letteratura all’Università Cattolica, firma di quotidiani e riviste.

Nell’arco di pochi mesi ha mandato in libreria anche un viaggio «olivettiano» nell’immaginario industriale delle Fabbriche che costruirono l’Italia edito dal «Sole 24Ore» e un testo a quattro mani con Raffaele Nigro per i tipi di Donzelli esplicito fin dal titolo, Civiltà Appennino, nell’indicare un nuovo paradigma politico-culturale. Scrive Lupo in Breve storia del mio silenzio: «Quella era l’Italia cui sentivo di appartenere: l’Italia umile e carnevalesca dei popoli che vissero un breve segmento di gloria – i lucani, gli osci, i sanniti, i volsci, forse anche gli etruschi – e poi dormirono il loro sonno sotto le coltri dell’Appennino».

Sì, a ben vedere, un fil rouge collega questi tre libri fra loro e con Gli anni del nostro incanto (Marsilio 2017, Premio Viareggio Rèpaci) ed è la fervida dialettica tra la memoria e le passioni dello studioso. La geografia letteraria di Lupo non esclude l’Io autobiografico dal campo del racconto, anzi, lo mette costantemente in gioco. Egli rinverdisce l’approccio antropologico di Carlo Levi e quell’afflato «stendhaliano» che Giovanni Battista Bronzini colse in Cristo si è fermato a Eboli (1945), collocandosi con freschezza nell’alveo del testo narrativo interiorizzato o del memoir la cui tradizione novecentesca allinea giganti quali Auden e Steiner, Magris e Saramago. Insomma, pur essendo un romanzo di formazione, Breve storia del mio silenzio non è «solamente» un romanzo. Rispetto alle trame perfettine e «di genere» che vanno per la maggiore, qui l’eterogeneità è un punto di forza, una cova di utopie che «nascono sui monti perché è lì che il tramonto muore tardi», di digressioni, passi a ritroso, fughe in avanti, con un che di metaforico e non programmatico. Il mutismo e la conquista della parola appartengono sì al piccolo protagonista, ma anche al paese in cui vive e dal quale partirà al momento della scelta dell’università, immatricolandosi alla Cattolica nel capoluogo lombardo.

Affiorano alla ribalta le figure dei genitori, «i primi maestri» cui il libro è dedicato (il padre è Lorenzo Lupo, animatore del dibattito culturale e dell’associazionismo cattolico in Basilicata), ma anche personalità che, dal Mezzogiorno all’Alta Italia, hanno ispirato o fiancheggiato l’autore lungo il percorso. Ecco Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sinisgalli, Tommaso Fiore, Carlo Alianello, Ettore Gelpi, Mario Trufelli, Vito Riviello, Maria Padula, Giuseppe Lazzati, Alfonso Gatto, Gabriele De Rosa, Luca Ronconi, Raffaele Crovi… E ritroviamo il nome, ormai dimenticato dai più, di Annibale Del Mare che sulle colonne della Gazzetta del Mezzogiorno il 28 ottobre 1943 dette la notizia della ripristinata libertà di stampa dopo vent’anni di censura fascista.
Mentre al raffinato editore veneziano Cesare De Michelis, dominus della Marsilio scomparso nel 2018, Lupo rende un personalissimo tributo-amarcord: «Se Cesare fosse qui, approfitterei per dirgli tutto ciò che non ho fatto in tempo, per pudore, per viltà… confessargli, per esempio, che il suono della pioggia è stato per me l’inizio della scrittura, che non potevo trovare altro editore se non uno che abitasse sul mare».

Non si pensi a una mera sequela di ricordi, perché quei protagonisti della cultura italiana prendono corpo, diventano personaggi, materia viva della narrazione, e in loro si concretano le aspettative, le speranze, le delusioni del bambino che smise di parlare quando aveva quattro anni, da un momento all’altro, alla nascita della sorellina. Le sue parole «perdute» non vengono ritrovate grazie ai consulti medici a Napoli e a Bari (nihil est in intellectu), bensì per caso, in una notte di tormenta, e quindi con l’ausilio del provvidenziale uovo sbattuto, una panacea per la nostra generazione! Sono i sapori, gli umori, i sensi, gli affetti, gli incontri a lampeggiare nell’atlante sentimentale del libro, che è candidato allo Strega.

In tale «liturgia delle meraviglie» trovano posto il ticchettio della macchina per scrivere paterna nelle solitarie notti lucane, lo shock del terremoto dell’80, le premure materne affidate alla valigia dello studente fuori sede, lo sguardo sulle valli che dopo Grottaminarda si aprono a un «teorema dell’Occidente», il filo dell’orizzonte adriatico a bordo dei treni che risalgono la Penisola, la complicità amorosa con la ragazza che diventerà moglie. E le mille luci e contraddizioni di una Milano acquatica e operosa, illuminista e manzoniana, bellissima ai tempi del boom come ai giorni nostri.

Il trauma dell’infanzia, quel subitaneo mancamento del linguaggio, si sublima dunque nel racconto di un’Italia «dal volto che ci somiglia» per dirla con Levi e dal passo modernissimo; un mosaico di «esercizi di fine Novecento» tra Sud e Nord con andate e ritorni continui, dove la ricognizione delle radici mette al riparo dal provincialismo. Un’elegia del secolo breve a sua volta «sospeso sull’abisso», come confermano il motto di Elias Canetti in epigrafe, «Chi ha troppe parole non può che essere solo», e l’evocazione finale de Le città invisibili di Italo Calvino. «Un meccanismo strano: la letteratura è la malattia dell’oblio, non della memoria», chiosa Giuseppe Lupo, che di questa malattia ha fatto la sua terapia, una fede laica e loica.

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