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Nuovo jazz europeo di casa a Belgrado: grande festa per i 35 anni del festival serbo

 
Ugo Sbisà

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Ugo Sbisà

Nuovo jazz europeo di casa a Belgrado: grande festa per i 35 anni del festival serbo

la rivelazione Michael Wollny

Grandi ospiti, da Steve Coleman a Nicola Conte, Michael Wollny e Maciji Obara

Mercoledì 30 Ottobre 2019, 10:20

«Cosa c’è da fare a Belgrado?» è la domanda tutt’altro che infrequente che in genere viene posta a quanti fanno rientro dalla capitale della Serbia perché, malgrado tutto, si tratta di una città raramente proposta negli itinerari turistici. Domanda legittima allora, come ancor più legittimo è rispondere che a Belgrado da fare c’è e anche tanto.
Sebbene al centro di un processo di lenta globalizzazione che, nel corso degli anni, ha cambiato il volto della pedonale Knez Mihailova, ormai affollata dalle insegne delle principali catene commerciali internazionali, Belgrado sa ancora sorprendere i visitatori con alcuni dei suoi angoli più suggestivi, come la fortezza Kalemegdan, dalle cui possenti mura di cinta - che però non riuscirono a contenere l’invasione ottomana - si può vedere l’abbraccio tra due fiumi, il Danubio e la Sava; o la Skadarlija, la strada che raccoglie i locali bohemienne della città, popolati da orchestrine che propongono melodie slave.
Ma a prescindere dall’aspetto più strettamente turistico, è l’intensità della vita culturale a rivelarsi la più bella delle sorprese e se i visitatori attenti non mancano di notare una quantità di librerie che sembra quasi voler sfidare le numerose pekara - rosticcerie - che profumano le vie della stari grad - la città antica - sono le mostre e i festival a costituire le proposte più interessanti.

In questi giorni, il Museo nazionale di arte moderna ospita «The Cleaner», la prima grande retrospettiva che Belgrado abbia mai dedicato alla più provocatoria delle sue artiste, Marina Abramovic: un lungo percorso attraverso le opere e le installazioni di una artista/performer che in molte occasioni ha fatto di se stessa e del proprio corpo, ora ostentato in assoluta nudità, ora addirittura «straziato», il veicolo per messaggi forti nei quali non è difficile cogliere l’indignazione, la denuncia, il dolore per un mondo sempre meno umano e inclusivo.
Contemporaneamente, la Dom Omladine - un palazzone moderno dallo stile che richiama gli anni del comunismo e sede del principale centro di cultura giovanile della città - ha festeggiato la trentacinquesima edizione del Beogradski Jazz Festival, un appuntamento atteso non solo in Serbia, come testimonia una nutrita comunità di giornalisti - fotografi e critici militanti - che provengono da tutta Europa e che ogni anno si danno appuntamento a Belgrado, dove hanno costituito una singolarissima famiglia musicale allargata.

Caratteristica principale di questo festival, che pure dedica non poco spazio alla musica d’Oltreoceano, è la sua attenzione a una scena europea giovanile della quale in Italia si sa poco o nulla e che guarda in parte all’Europa orientale, in parte a proposte fuori dal comune che vengono ospitate grazie a una proficua rete di rapporti con gli Istituti di Cultura. Spazio ovviamente anche per l’Italia, che quest’anno è stata rappresentata prima dal barese Nicola Conte - ormai tra i beniamini del pubblico serbo - in una sorta di anteprima, poi dagli Yellow Squeeds del chitarrista Francesco Diodati, (Francesco Lento tromba, Glauco Benedetti trombone, Enrico Zanisi pianoforte ed Enrico Morello batteria) appunto giunti in Serbia grazie all’Istituto italiano di Cultura. Due proposte molto diverse tra loro, ma a maggior ragione rappresentative di una scena variegata.

In un’edizione che ha prestato attenzione alle voci, da quella della diva Dianne Reeves a Jazzmeia Horn, alla russa Tanya Balakirskaya e alla canadese Laila Biali, i piatti forti sono andati in scena con un travolgente Steve Coleman con i suoi Five Elements o ancora Stanley Clarke, Charles Lloyd e la Mingus Big Band. E tuttavia, sono proprio le proposte meno di «cassetta» a meritare lo spazio residuo di questo reportage, a cominciare dal trio del pianista tedesco Michael Wollny che passa con disinvoltura da Bjork a Paul Hindemit, facendoli propri con un linguaggio jazzistico dal forte impatto contemporaneo. Il sassofonista polacco Macij Obara si è imposto per un jazz drammatico non privo di «lampi» reminiscenti il primo Ornette o Eric Dolphy, avvalendosi tra gli altri del grande talento pianistico di Dominik Wania. La scena austriaca è stata rappresentata dagli interessanti Shake Stew, mentre il batterista berlinese Max Andrzejewski ha portato in scena un’interessante rilettura di Robert Wyatt. E se il chitarrista israeliano Gilad Hekselman è apparso ancora troppo prigioniero del proprio visrtuosismo, il trombettista britannico Henry Spencer ha brillato per un sincero lirismo davisiano post Bitches Brew.
C’è, in altre parole, un’Europa del jazz che merita di essere conosciuta dagli organizzatori e dal pubblico. E a proposito di quest’ultimo, Belgrado mette a segno un altro punto prezioso: sale sempre piene di giovani a tutte le ore, persino il sabato sera a mezzanotte. Anche dalla Serbia, c’è molto da imparare.

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