Domenica delle Palme. Il Parroco della mia infanzia di chierichetto, mi regalerebbe un ramoscello d’ulivo, sottratto alle bramosie della Xylella. Ma, oggi, «non ho neanche un prete per chiacchierar», come canta Paolo Conte e allora scambio la Palma con voi lettori. Ognuno ha il parroco della vita e rimane lui l’antonomasia dei consiglieri spirituali. Il mio, Don Vincenzo, aveva un bellissimo «calciobalilla», in una stanzetta della sacrestia, smagliante coi pupazzetti rossi e blu. A me, ragazzino, piaceva molto e, molto, desideravo giocarci. Don Vincenzo lesinava i permessi che concedeva come premio ai più meritevoli tra i seguaci del corso di catechismo.
Animate partite si svolgevano negli interminabili pomeriggi «troppo azzurri e lunghi» di paese, frammezzate dalle letture accudite da pazienti signore. Mio nonno le chiamava con sorniona malizia, «le bizzoche»: le pinzochere dall’antico lignaggio chiesastico. Beghine, insomma. Le pie signore ci insegnavano i rudimenti serafici della dottrina religiosa e la storia sacra. Le volte alte della chiesa risuonavano delle vocine dei bambini che rispondevano in coro ai questiti catecumenali.
Io, spesso, mi distraevo, non solo perché il pensiero aleggiava verso il «calciobalilla» che stava lì, inerte, ma, anche, perché lo sguardo svolazzava in cerca d’evasione tra gli altari coi santi estasiati di vedute mistiche e definitive, indugiando sulle lapidi grigiastre che decretavano epigrafi nel loro latino sbrecciato e appuntato, fermandosi sulle icone sbilenche della «Via Crucis» issate selle colonne laterali del piccolo tempio. Il dramma scandaloso della Passione si sgranava, stazione per stazione, fino all’epilogo risaputo da tutti i Cristiani e compianto fino alla rabbia dai minimi catechisti che eravamo noi bambini. Leggevo la Via Crucis, con quelle immagini che frammentavano il racconto, come una specie di fumetto e l’accostamento mi sembrava blasfemo. Più tardi avrei imparato che avevo ragione e che avevo intuito una struttura narrativa precisa. Ma allora, per perdonarmi, studiai quelle figure con zelo devoto.
Una soprattutto mi colpiva e attraeva: quella che rappresentava un uomo che soccorreva Gesù sul Calvario sorreggendo la Croce. Don Vincenzo lo chiamava «il Cireneo. Indagai e scoprii che costui non era particolarmente devoto o acceso d’entusiasmo nel seguire il Maestro: semplicemente, secondo la vulgata. Ma non secondo i tre evangelisti che annotano di un dispotismo dei soldati, il Cireneo compiva un gesto di bontà, di generosità e altruismo per un povero sconosciuto in pena. Io preferii la «vulgata: un uomo semplice che asciuga le lacrime terrene d’un altro uomo e l’aiuta a portare la sua croce. Ecco: si fa carico pesante e terribile delle croci degli altri. Ho scritto la parola croce in minuscolo: perché è quella degli abitatori, non mai rassegnati, ma pieni di speranza, di «quest’atomo opaco del male», come annota un poeta che, a scuola, noi catechisti, studiavamo. Confidai questa riflessione a Don Vincenzo il quale mi lodò, ma non mi indicò, come di solito faceva se intendeva premiarmi, il «calciobalilla». M’imbronciai. Il brav’uomo mi spiegò che ci stavano giocando altri assai più sfortunati di me: ragazzi che lavoravano e faticavano e che non avevano l’opportunità di scegliere il tempo per giocare o leggere il Pascoli.
Ricordi di un umile apostolato laico che ho frequentato nella generosa, pur se confusa, ricerca della verità e della giustizia, con la precipitosa e commossa irruenza dell’età che spiega come non diventai, come molti della mia generazione, Cireneo, ma arruffato protestatario.
Mio padre sentenziava, per tranquillizzare mia madre, che se non si è rivoluzionari a tredici anni, a cinquanta si diventa preti. Ciò, forse, spiega la mia ritrosia alla tonsura e il fatto che sia rimasto un imperterrito peccatore, nonostante tenti di intrattenere con il Padreterno un rapporto d’umile amicizia devota e commossa. Il fatto è che a vent’anni ero «rivoluzionario», se questo vuol dire credere in valori come la giustizia sociale, l’uguaglianza, la pace. Studiavo, discutevo, ragionavo. Ma non sfilavo cantando invettive alle basi americane. Lo trovavo ridicolo. Perché non anche contro le basi russe? Che volete farci: allora quelli erano gli obiettivi, non ce li eravamo scelti.
Ne sono passate di Domeniche delle Palme! Ed eccoci a riflettere sulle ultime, recenti violenze terribili, quelle dell’aggressione dei Russi all’Ucraina e il mondo civile piange ennesime vittime.
In presenza dell’aggressione del terrorismo di Putin all’Europa e alle sue libere istituzioni, alla dolente, contraddittoria, affaticata, ma civile Europa, mi sento di cominciare io a sfilare: contro l’ottusità e la miopia, le bugie e le truffe, gli opportunismi, le politicucce affannate, truccate da strategie di grande respiro che sono solo scuse per appropriarsi della gigantesca ricchezza del mercato globale non condivisibile che inquina il mondo. E sfilerei anche contro i gli attempati e miserabili terroristi assassini soccorsi dalla superstite dottrina Mitterand nella troppo ospitale Francia. Ce n’è anche per loro nella mia marcia. Così la penso oggi, avendo superato sia l’età per farmi prete, sia, per fortuna, quella del rivoluzionario.