Uno degli inciampi più facili della politica è l’organizzazione della sanità. La trasversalità delle esigenze e delle rivendicazioni, le particolarità a volte contraddittorie, le abitudini consolidate, il marasma di interessi si coagulano in nodi che agitano i sonni dei politici. Il caso della recente pandemia che repentinamente ha imposto di mutare non solo assetti ed abitudini pubblici, ma, anche, le scelte generali della politica nazionale e del governo del Paese, appunto, fu esemplare nello scorcio degli ultimi ormai tre anni. E oggi? Oggi la Corte Costituzionale considera legittime le disposizioni governative in ordine all’obbligo vaccinale in casi ben definiti.
Oggi mi viene in mente di ricorrere alla citazione. L’ambito è, quindi, sanitario. Si tratta di un frammento letterario che narra della motivata diffidenza, lo vedremo, di un cittadino nei confronti di una ancora incertissima «arte» medica che si sforzava di radunare molte competenze scientifiche come aveva predicato Aristotele. L’affannosa storia della Medicina annovera stazioni di posta arruffate e confuse agli esordi della lunga, meravigliosa e faticosa strada della Medicina nelle epoche storiche. Certe diffidenze avevano una giustificazione, non come le incomprensibili diffidenze e gli assurdi scetticismi dei nemici dei vaccini. Ma, ecco la pagina antica.
«Languebam, sed tu comitatus protinus ad me, / venisti centum, Symmache, discipulis. / Centum titigere manus Aquilone gelatae; / non habui febrem, Simmachae, nunc habeo». (Epigrammi V, 9).
È la lagnanza di Valerio Marziale, arguto poeta latino vissuto nel primo secolo, che sapeva abbinare l’ingegnoso gusto per la mordacità della lingua con la satira del tempo suo corrotto nei costumi e negli stili di vita. Come diremmo oggi.
I versi umoristici e sapidi ci lasciano filtrare l’immagine di un medico, nei vocativi dell’epigrammista, si chiama Simmaco, che girella nelle visite a domicilio, scortato da un corteggio brusiante di discepoli famelici di sapere, probabilmente avidi di trucchi, certamente in ansiosa attesa di cadreghe e di clienti patrizi.
La traduzione dei versi per i pigri o i dimentichi del latino ginnasiale: «Ero malato, ma tu con un codazzo di cento allievi, Simmaco, sei venuto subito a visitarmi. Cento mani, gelate dall’Aquilone, mi hanno toccato: Simmaco, io non avevo la febbre, adesso ce l’ho». Oggi Aquilone non è più un vento per nessuno, è solo un bel giocattolo. Simmaco non esercita più, è in pensione. I suoi allievi si sono sparsi per il mondo. I loro eredi non fanno più a gara per palpeggiare con i polpastrelli-ghiacciolo il torace o l’addome di nessuno: studiano in sofisticati isolamenti e, in solitaria e pensosa fatica, attendono telefonate, elaborano ipotesi, programmano analisi, consultano Internet e in questo nuovo oceano viaggiano speranzosi. Certo seguono il Maestro, ma sono sicuro che il codazzo si è assottigliato assai, le visite non sono più quella vociante assemblea intorno al malato, quella conviviale occasione per lui di essere al centro di un’attenzione, a volte, troppo invadente, ma altre volte una buona occasione per sentirsi meno soli a cospetto del morbo misterioso.
Tutto è più moderno e, diciamolo, asettico. So di pratiche efficienti di elettrocardiogrammi trasmessi per telefono o con l’uso dei «social» a centri specializzati dove uno specialista ascolta, rileva, esamina, calcola, emette il risultato senza nemmeno veder in faccia il paziente e, poi, spedisce al collega una diagnosi. Funziona, certo, funziona benissimo. È il futuro che ci prepariamo a vivere. La telemedicina, tra gli altri eccellenti vantaggi, salverà i pazienti dall’arrembaggio degli studenti che potranno seguire comodamente la visita-lezione sul monitor dell’Università. Senza rischiare le gelide minacce di Aquilone.
È vero, il medico continuerà ancora e sempre a guardare negli occhi il paziente.
Me lo assicurano quando li intervisto e ci credo. Ma io chiedo di largheggiare in parole e in domande, perché sono, non dico taumaturgiche, ma sicuramente preziose.
I medici di tutto il pianeta (per ora) potranno essere virtualmente convocabili al capezzale di un malato con la loro competenza e la loro esperienza. Mi assicurano che si arriverà ad operare con gli automi, a distanza: il luminare nel suo studio in metropoli irraggiungibili e la macchina ubbidiente, ubbidiente ad eseguire i comandi con precisione millimetrica in una sala operatoria posta in un altro continente. La faccenda è, forse, malinconica, ma i vantaggi sono enormi. Si potrà contare sull’aiuto di esperti a portata di macchina elettronica e si risparmierà, oltre tutto, la spesa delle trasferte. È evidente, però, che la macchina sbaglia solo quando sbaglia colui che la fa funzionare e che la macchina, invariabilmente e tassativamente, sbaglierà se questi sbaglierà, perché non ha la capacità di emendare uno svarione o di correggere un errore involontario. Credo.
Almeno che non sia programmata anche per questo e non conosca tutte le possibilità di fallo o di accidente che la procedura medico-chirurgica in questione contempla.
In questo caso insegnatele anche a fare una carezza al paziente. Purché abbia le mani tiepide.