Il 13 gennaio 1950 «La Gazzetta del Mezzogiorno» dedica la terza pagina al «Premio Taranto», un concorso letterario e artistico, istituito solo tre anni prima, nel 1947, da Antonio Rizzo e un gruppo di giovani che ruota attorno al Circolo della cultura del capoluogo jonico. Il vincitore della sezione pittura della quarta edizione è Fausto Pirandello, figlio di Luigi. Esponente della corrente espressionistica, l’artista romano ha presentato tre opere attinenti al tema della manifestazione, il mare: Bagnanti in giallo gli è valsa l’assegnazione del premio. Per la narrativa, il vincitore è, invece, Gaetano Arcangeli, bolognese, autore di un diario dal titolo Del vivere.
Nelle sale dell’Istituto Talassografico è allestita la mostra in cui sono esposte le opere pittoriche in gara – la giuria è quell’anno presieduta da Felice Casorati – ma anche pezzi fuori concorso, tra cui si spiccano tele di Alberto Tosi, De Pisis, Carrà, De Chirico, Alberto Savinio, Carlo Levi, Campigli. Dopo aver descritto ai lettori della «Gazzetta» le opere più significative, Valentini dedica gran parte del suo pezzo a quella che definisce «la numerosa pattuglia dei pittori baresi». Tra tutti il giornalista segnala l’opera di Raffaele Spizzico, ma degni di nota sono anche i lavori di Pasquale Marino, Francesco Spizzico e Umberto Baldassarre, Roberto De Robertis e degli esordienti Anna Fanizza, Salvemini, Caretta, Testi, Rega e Pagnelli.
«È doveroso, in questa occasione, rilevare che essi hanno costituito una sorpresa, diciamo pure, una rivelazione della Mostra, presentandosi come un gruppo che, pur nella logica e sensibile gradazione di valori e nella caratterizzazione delle diverse personalità, appare unito da qualche cosa di non facilmente individuabile, che potrebbe essere una atmosfera particolare di vita e di ambiente, o forse soltanto una nobile emulazione, o una vivacità e densità di umori o una comune insonne ricerca, ma che comunque dimostra come essi non siano avulsi dai problemi moderni, anzi rivelino una urgente e avanzata esperienza formale, una ricchezza e libertà di mezzi d’espressione basati su un fondo di tradizionale serietà, dove non allignano le facili avventure di cui son piene le cronache di questi ultimi vent’anni di pittura italiana».
La manifestazione raggiungerà un notevole successo anche l’anno successivo, annoverando tra i suoi giurati persino Ungaretti e Aldo Palazzeschi: quella del 1951 sarà, tuttavia, la sua ultima edizione.
«La terra ha tremato a Palermo e a Trapani. Tre scosse di carattere ondulatorio» pubblica in prima pagina la «Gazzetta» del 15 gennaio 1968. La notizia è arrivata evidentemente molto tardi in redazione e l’articolo è molto essenziale. Il terremoto, nella notte tra il 14 e il 15, nella Valle del Belice è invece stato devastante e l’edizione del giorno seguente è interamente dedicata alla cronaca del terribile evento. Sulla foto in bianco e nero delle rovine di Gibellina e Montevago, quasi resti di un bombardamento, giganteggiano titoli tremendi: «La morte bussa 16 volte», «Sorpresi nel sonno non hanno avuto scampo», «Assolutamente imprevedibile». Tutti gli articoli mettono in luce una tragedia inaspettata: il portavoce dell’Istituto nazionale di geofisica afferma addirittura che il territorio colpito non sarebbe neanche classificato come zona sismica. «La zona colpita è un triangolo che ha come vertici Salemi, Poggioreale e Santa Margherita Belice. In pochi attimi Gibellina e Montevago sono state praticamente cancellate dalla faccia della terra».
Nella seconda edizione della sera appaiono altre cronache. Anselmo Colaciura, da Santa Margherita Belice, racconta il silenzio della cittadina, dove tutto appare sepolto dalle macerie e i soccorsi non sono ancora arrivati: «Dov’è il mio picciriddu?» è l’ossessiva litania di una madre. Quelli che sono scampati vivono tutto il giorno e la notte all’aperto nelle campagne. Non osano avvicinarsi ai loro paesi, fuggono lontani da quello spettacolo di desolazione e di morte». Il bilancio finale del terremoto del Belice del ‘68 sarà di circa 300 morti, oltre 5000 feriti, decine di migliaia gli sfollati: i soccorsi, pur ingenti, arrivano tardi per il crollo delle strade di collegamento, già in pessime condizioni strutturali. Le ultime baracche in lamiera, dove gli sfollati vivono in condizioni difficilissime, saranno definitivamente sgomberate nel 2006, dopo 38 anni.