Per contestare il delitto di utilizzo di fatture false, l’accusa deve necessariamente provare che l’indagato era consapevole che la fornitrice fosse effettivamente una “cartiera”. Secondo i giudici, le email esibite dall’indagato, i pagamenti tramite bonifici, e il prezzo di acquisto in linea “con quello di mercato”, sono elementi che portano ad escludere la consapevolezza della frode. E comunque che tali elementi devono essere tutti specificatamente valutati dal giudice.
IL FATTO IN SINTESI
Il giudice per le indagini preliminari di Vicenza disponeva il sequestro preventivo finalizzato alla confisca nei confronti dell’amministratore di un s.r.l. cui veniva contestato, in qualità di rappresentante legale della società, di aver presentato dichiarazioni Iva fraudolente portando nella propria contabilità fatture soggettivamente inesistenti. Il tribunale del riesame confermava il sequestro disposto dal Gip. L’amministratore proponeva ricorso in Cassazione, sottolineando come il giudice territoriale non avesse valutato i documenti che dimostravano che la società ricorrente aveva avuto rapporti diretti soltanto con la cedente (rivelatasi poi una cartiera) e che quindi non poteva sapere che le prestazioni, in realtà, fossero materialmente eseguite da un altro soggetto economico. Nello specifico non erano stati presi in considerazione dal giudice: le email per gli ordini delle merci, i pagamenti effettuati tramite bonifico, il prezzo in linea con quello di mercato e l’assenza di un vantaggio fiscale per la società utilizzatrice.
LA DECISIONE DELLA CORTE
Per i giudici del Palazzaccio (sent. 17400/2021) è da accogliersi la tesi difensiva del manager: «il tribunale del riesame, in sede di controllo dei presupposti per l’adozione di una misura cautelare reale, deve verificare non solo la astratta configurabilità del reato, ma anche, in modo puntuale e coerente, “tutte le risultanze processuali” e, quindi, sia gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa sia le confutazioni e gli elementi offerti dagli indagati che possono avere influenza sulla configurabilità e sulla sussistenza del reato contestato». Nel caso esaminato, la società ricorrente ha indubitabilmente offerto al tribunale del riesame degli elementi offerti che possano avere influenza sulla configurabilità e sulla sussistenza del fumus del reato contestato. Dalla contribuente è stato esercitato il diritto di difesa mediante la produzione documentale (le mail ed i bonifici effettuati alla società cartiera, ecc.) proprio al fine di dimostrare che la società ricorrente non era a conoscenza della natura di cartiera della società emittente.
La consapevolezza, hanno soggiunto i giudici, «è elemento essenziale per ritenere sussistente il fumus del delitto D.Lgs. 74/2000, ex art. 2». In altri termini «il dolo del delitto di dichiarazione fraudolenta consiste nella consapevolezza, di colui che utilizza il documento in una dichiarazione, che chi ha effettivamente reso la prestazione non ha provveduto alla fatturazione del corrispettivo versato dall’emittente, conseguendo, in tal modo, un indebito vantaggio fiscale in quanto l’Iva versata dall’utilizzatore della fattura non è stata pagata dall’esecutore della prestazione medesima». Per queste ragioni la Corte ha annullato la sentenza impugnata.
CONCLUSIONI
La pronuncia in commento è del tutto condivisibile. Non si può porre a base della misura cautelare del sequestro, e comunque del fumus del reato, la mera supposta natura di “cartiera” della società che ha emesso le fatture. È sempre necessario un “collegamento illecito tra l’emittente e l’utilizzatrice” che si concreta quantomeno con la consapevolezza della frode. È noto infatti che nelle complesse frodi Iva, spesso i contribuenti sono partecipi “inconsapevoli”, rappresentando a loro insaputa un “anello” della catena fatta di cartiere, buffer, società filtro e soggetti effettivi. L’interpretazione “garantista” dell’elemento della “consapevolezza” va consolidandosi anche in ambito della contestazione amministrativa di fatture false. La Cassazione civile, con altra recentissima sentenza (11685/2021), ha infatti subordinato l’indetraibilità dell’Iva e l’indeducibilità del costo “alla prova da parte del Fisco” che il contribuente cessionario già “sapeva” o “poteva sapere”, “secondo la diligenza media”, di partecipare ad una evasione di imposta. In definitiva, secondo l’interpretazione dei giudici, va privilegiata la buona fede del contribuente.