«È da tempo che si parla di una Città metropolitana Salento e sorprende che non ci sia un dibattito: ringrazio la Gazzetta per averlo sollecitato». Guglielmo Forges Davanzati, professore di Economia Politica all’Università del Salento (per conto della quale ha condotto studi sul Masterplan della Terra d’Otranto, già Grande Salento) e componente del Cambridge Center for Economic and Public Policy dell’Università di Cambridge, sostiene la necessità di una integrazione tra i sistemi territoriali di Brindisi e Lecce e l’idea di istituire una Città metropolitana nel sud della Puglia (nei giorni scorsi si sono espressi in tal senso il deputato di FI, Andrea Caroppo, e il professore di Diritto Amministrativo dell’Università del Salento, Pier Luigi Portaluri). Oltre che sugli assetti istituzionali, però, per Forges Davanzati - al fine di ridurre il crescente gap con la Città metropolitana di Bari - occorre incidere su strutture e specializzazioni del sistema produttivo salentino, costituito da imprese troppo piccole e concentrate su settori - quali il turismo - a bassa produttività. Viceversa, settori come quello manifatturiero generano guadagni di produttività dal momento che lì si concentra l’attività di ricerca e sviluppo, attivano la domanda per il terziario, generano beni esportabili e quindi fronteggiano una domanda estremamente più ampia.
Il professore Portaluri richiamava esternazioni di banchieri locali sulla presenza di un «vallo» che preclude a flussi importanti di processi economici la possibilità di scavalcare la realtà metropolitana barese per arrivare nel Salento. È così?
«C’è un problema di crescenti divergenze tra piccole-medie città e grandi città, e ce lo dice la Commissione europea sin dal 2022: ci sono forze centripete che vanno sempre più ad arricchire i grandi centri a discapito di quelli piccoli. Sicuramente questi ultimi hanno più difficoltà a intercettare i flussi finanziari per il poco potere politico che hanno. A partire da questo, bisognerebbe accentuare la riflessione sui vantaggi che si avrebbero dalle aggregazioni. Con l’Università del Salento abbiamo effettuato uno studio molto ampio, durato due anni, che si chiama Masterplan della Terra d’Otranto: il problema fondamentale che abbiamo rilevato nell’area salentina è la frammentazione produttiva e istituzionale. Va tenuto conto che la dimensione media d’impresa nella provincia di Lecce è di 1-9 dipendenti, a fronte di una media italiana molto più ampia, quindi c’è un problema di piccole dimensioni aziendali e di numerosità di piccoli centri. Il vantaggio fondamentale che si avrebbe da meccanismi di aggregazione territoriale non è soltanto quello di ottenere maggiori flussi finanziari ma anche la determinazione di economie di scala: al crescere delle dimensioni produttive o istituzionali-politiche, i costi si riducono e l’efficienza aumenta».
A proposito del Masterplan della Terra d’Otranto, che almeno geograficamente riproponeva l’idea del Grande Salento lanciata agli inizi del nuovo millennio dagli enti istituzionali delle tre province del sud della Puglia: si può dire che ha offerto una ulteriore conferma della impossibilità di aggregare Brindisi, Lecce e Taranto per carenza di interessi in comune?
«Penso che non ci siano similitudini e meccanismi di aggregazione con Taranto, e non parlo di identità storiche. Ma è anche difficile trovarli tra Brindisi e Lecce, che hanno storie e realtà produttive completamente diverse».
Il fatto che Brindisi e Lecce sono complementari, con la prima caratterizzata da un’anima produttiva e la seconda più vocata ai servizi e all’offerta formativa, oltre al fatto che condividono le stesse battaglie soprattutto nell’ambito delle infrastrutture e dei trasporti, non può rappresentare un punto a favore di una loro aggregazione, che si dispieghi nella forma della Città metropolitana o semplicemente di convenzioni tra i Comuni dei due capoluoghi?
«Se fossero aggregate in un’unica unità amministrativa, si potrebbe pensare a una divisione interna del lavoro. Ma al momento si tratta di province autonome, dove ognuna concorre con l’altra; non ci possono essere meccanismi di cooperazione tra province che competono. Secondo me, la cosa più sensata sarebbe perseguire l’idea della istituzione della Città metropolitana Salento: do pienamente ragione a Portaluri; tra l’altro non c’è nemmeno bisogno di una norma di rango costituzionale. È da tempo che se ne parla e sorprende che non ci sia un dibattito: ringrazio la Gazzetta per averlo sollecitato. Pensate a quanti risparmi si otterrebbero sui costi legati a duplicazioni. Ma soprattutto si otterrebbe maggiore efficienza amministrativa».
E rispetto al comparto produttivo, quali soluzioni si potrebbero adottare?
«È difficile pensare che un’economia fatta di imprese di così piccole dimensioni possa competere su scala internazionale. A disposizione delle aziende c’è tutta la normativa sulle reti d’impresa, sui meccanismi d’incentivazione all’aggregazione. Credo che alla base di queste problematiche incidano fattori culturali, ma bisogna in qualche maniera incentivare questo processo di aggregazione perché le grandi dimensioni sono connesse a processi innovativi; la piccola impresa non dispone di fondi interni per gestire le innovazioni».
Quanto incide sull’economia salentina il gap infrastrutturale e logistico della dorsale adriatica Brindisi-Lecce?
«È un problema enorme ed è anche questo legato alle piccole dimensioni e, quindi, al poco potere di negoziazione politica, rendendo così ancora più marginale il territorio».
Gli indicatori economici della Città metropolitana e del Salento dicono effettivamente che la forbice tra le due aree si sta allargando?
«Il punto fondamentale per rilanciare le economie di Brindisi e Lecce - mentre per Taranto vale un altro discorso - è incidere sulla struttura produttiva, cioè sulle dimensioni medie d’impresa, ma soprattutto sulla specializzazione produttiva. Quella salentina è un’economia eccessivamente specializzata in servizi a basso valore aggiunto: si è perso quel po’ di struttura manifatturiera che c’era, l’agricoltura è stata decimata dalla Xylella e, dopo il break strutturale del 2013, la specializzazione produttiva è andata in settori con bassa produttività».
Al contrario di quanto avvenuto a Bari, diventata negli ultimi anni anche un importante hub per l’industria tecnologica e dei servizi digitali.
«Esatto, e questo è avvenuto per il maggiore peso politico del capoluogo di regione, per le economie di scala che hanno le città di grandi dimensioni e quindi, come conseguenza, per la loro capacità di attrarre imprese e finanziamenti. Il Salento è rimasto indietro sotto questo punto di vista e in più ha scommesso su servizi a basso valore aggiunto come il turismo, che non introducono innovazioni e utilizzano prevalentemente forza lavoro a bassa qualifica o sotto-occupata. Il gap infrastrutturale è un effetto; altrimenti perché la gran parte dei trasporti si concentra in regioni come la Lombardia? Non si possono invocare in astratto maggiori trasporti per far sviluppare le attività produttive: il meccanismo è esattamente l’opposto».
Le associazioni produttive di Brindisi e Lecce farebbero bene a fondersi in un’unica sezione come avvenuto in Romagna?
«Assolutamente sì, qualunque cosa remi contro l’individualismo meridionale e locale, va benissimo».
















