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Giornalisti all’inferno

 
leonardo petrocelli

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leonardo petrocelli

Giornalisti all’inferno

«In passato vi abbiamo passato tante notizie, oggi la notizia siamo noi». È una frase che Roberto Cetera, corrispondente da Gerusalemme per l’Osservatore Romano, si sente ripetere spesso

Martedì 10 Giugno 2025, 15:51

17:50

«In passato vi abbiamo passato tante notizie, oggi la notizia siamo noi». È una frase che Roberto Cetera, corrispondente da Gerusalemme per l’Osservatore Romano, si sente ripetere spesso. E ogni volta avverte un brivido attraversargli la schiena. Perché è vero. Gliela ripete il suo amico Safwat Kahlout, ex caporedettore palestinese di Al Jazeera arrivato in Italia attraverso l’Egitto.
Quelle parole scolpiscono una verità: a Gaza c’è anche una guerra di notizie, di censure, di stragi per tacitare e distorcere il racconto. In Ucraina i reporter entrano perfino nelle trincee ma nella Striscia è un’altra storia. Si muore per aver intrappolato la realtà in uno schermo. Una barbarie che, però, illumina l’altra faccia della luna: perfino all’inferno, il giornalismo è vivo.

Roberto Cetera, perché è così difficile raccontare quello che succede a Gaza?
«Il motivo principale è che i giornalisti a Gaza non possono entrare. Quindi non sappiamo quello che accade lì».

E le notizie come le raccogliete?
«Per interposta persona. Cioè attraverso alcune centinaia di giovani, praticanti giornalisti o giornalisti improvvisati, che girano montagne di video e li riversano nelle chat dei corrispondenti di tutto il mondo. Sono immagini che non ti fanno dormire la notte».

Chi sono questi ragazzi?
«Giovani che studiano o hanno studiato Lettere, Relazioni internazionali, Scienze della Pace, Giornalismo, radio o tv. Qualcuno aveva già cominciato a lavorare, come freelance di Al Jazeera, altri hanno iniziato con la guerra».

Che prezzo pagano?
«Un prezzo altissimo. Finora ne sono morti 215. Ripeto, 215. Nessuna guerra ha avuto così tanti giornalisti ammazzati. E nella maggior parte dei casi non si tratta di casualties, cioè di tragiche fatalità dovute magari a bombe cadute nelle vicinanze, ma di omicidi mirati».

Una strage nella strage. Tel Aviv cerca solo il silenzio, dunque.
«Ed è un errore. Vede, se i giornalisti internazionali fossero entrati a Gaza avrebbero certo raccontato le nefandezze dell’esercito israeliano ma pure quelle di Hamas».

Anche i media israeliani sono censurati?
«Sì, giornali e agenzie sono sottoposti a controllo. C’è un caso interessante, quello della rivista “972”, il cui nome rimanda al prefisso telefonico di Israele e Palestina, l’unica cosa che le due realtà hanno davvero in comune. Sono molto bravi e hanno una rete di corrispondenti gazawi che forniscono loro notizie ma ogni volta che le utilizzano per un articolo scatta la censura dei militari».

Come si giustificano?
«Dicendo che si tratta di una azione tecnica per evitare che circolino informazioni che possano avvantaggiare Hamas».

Quindi l’opinione pubblica israeliana cosa sa?
«Molto poco. Le immagini tragiche che da noi piovono quasi quotidianamente loro non le hanno mai viste. Non solo, ma ignorano anche l’isolamento internazionale che ormai avvolge Israele. Il più grave dal 1948».

Nonostante questo, però, le proteste anti-Netanyahu ci sono...
«Vero, ma vale per gli israeliani e non per gli ebrei della diaspora che, in Italia e in Europa, in larga parte supportano Netanyahu e il suo governo».

Come se lo spiega?
«In Israele non esiste antisemitismo ma nel resto del mondo sì. Gli ebrei della diaspora scontano sulla propria pelle l’isolamento di cui dicevo e reagiscono affermando un’identità che passa dalla condivisione delle scelte governative».

E veniamo a un altro fronte, la guerra delle parole: terrorismo, genocidio, olocausto.
«Quello delle parole è un problema enorme. Io, ad esempio, non scrivo mai “i terroristi di Hamas”. Non perché Hamas non compia o non abbia compiuto azioni terroristiche ma perché la realtà è più complessa. Parliamo di una organizzazione che rappresenta opinioni, magari esecrabili, ma condivise da una larga fetta della popolazione e che nasce, nel 1987, per favorire l’assistenza sociale, la sanità, le scuole. Anche la Resistenza italiana, che aveva dalla sua la maggior parte del popolo, compì atti terroristici ma nessuno, nemmeno la destra più estrema, la definirebbe una organizzazione terrorista».

Quanto al «genocidio»? È il tema più spinoso.
«Mettere o meno un’etichetta su 60mila morti ammazzati cambia poco la realtà. Saranno gli storici a stabilirlo. Per gli ebrei la parola genocidio evoca un fantasma, pensano di essere gli unici a cui possa essere riferita. Non è vero, naturalmente, basta pensare agli armeni. Ma utilizzarla vuol dire attizzare l’odio e allontanare la pace. Faccio mia la lezione di Papa Francesco: “Usate sempre parole di speranza”».

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