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«Un accordo carico di incognite: mancano garanzie ambientali, sanitarie e occupazionali e per le comunità locali c’è poco o nulla»

 
Biagio Marzo

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Biagio Marzo

taranto Ilva

È stato scritto il penultimo capitolo dell’Odissea della siderurgia pubblica italiana, e si spera che l’ultimo arrivi il 15 settembre. Tema: la decarbonizzazione dello stabilimento di Taranto

Giovedì 14 Agosto 2025, 10:00

È stato scritto il penultimo capitolo dell’Odissea della siderurgia pubblica italiana, e si spera che l’ultimo arrivi il 15 settembre. Tema: la decarbonizzazione dello stabilimento di Taranto, con la chiusura sine die degli altiforni — la cosiddetta “area a caldo” — e la sostituzione con forni elettrici. Un’operazione dal costo stimato di circa 13 miliardi di euro: un grattacapo per il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, chiamato a trovare le coperture e far quadrare i conti. Dopo mesi di batti e ribatti, minacce, rassicurazioni e qualche fake news di troppo, si è arrivati all’ultimo miglio.

Tutti felici e contenti — governo, Regione Puglia, sindaco di Taranto (in collegamento remoto) e istituzioni locali — hanno sottoscritto un documento, o meglio un report, che si limita a riportare fatti e dati in modo chiaro e, diciamo, fedele. Strano a dirsi, ma attorno alla siderurgia tarantina si è assistito a una giostra di qui pro quo: ambientalisti diventati industrialisti e viceversa. In scena, quasi a sorpresa, è arrivata anche Elly Schlein, con un “prezioso” suggerimento: creare a Taranto una siderurgia decarbonizzata ed ecosostenibile. Il suo intervento mancava ancora, dopo quelli di Conte, Renzi e Decaro, tutti allineati alle posizioni del sindaco Bitetti (almeno fino al 12 agosto). Qui torna utile Andreotti: «Pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca». Il “soccorso rosso” della Schlein a favore di Emiliano sembra premiare l’impegno del governatore per sbloccare, almeno sulla carta, il dossier siderurgia. Entrando nel merito, il piano prevede la realizzazione di tre forni elettrici. Ma non indica né i tempi per il passaggio effettivo alla nuova modalità produttiva, né la localizzazione del polo Dri, destinato a produrre il preridotto per alimentarli. È stato deciso di aggiornare il tavolo dopo il 15 settembre, termine ultimo per la presentazione delle offerte vincolanti della nuova gara, con l’obiettivo di «esaminare le prime evidenze della Procedura e valutare la possibile localizzazione degli impianti di preridotto».

Tutto bene, madama la marchesa? Magari. La verità è che l’accordo è carico di incognite: mancano garanzie ambientali, sanitarie e occupazionali, e per le comunità locali c’è poco o nulla. Non c’è nemmeno un euro stanziato: il governo, per dirla con gli esperti del Mef, “non ha occhi per piangere”. In meno di due anni, durante il commissariamento di Acciaierie d’Italia, sono andati in fumo 2 miliardi di euro. Circa un anno fa, l’ex Ilva registrava perdite mensili di 70-80 milioni su un fatturato di 150 milioni. Il paradosso è che più si produce, più lo Stato va in deficit di milioni di euro. L’acquirente dovrà investire pesantemente nella decarbonizzazione, senza tempi certi, con la conseguente chiusura dell’area a caldo e la necessità di una nuova AIA coerente con il futuro assetto produttivo. La produzione prevista è di sei milioni di tonnellate annue. Inoltre, «l’acquirente potrà presentare offerte per l’intero complesso aziendale, per singoli rami d’azienda o per il solo compendio industriale Nord o Sud»: uno “spezzatino” che i sindacati considerano indigeribile. Siccome i gruppi siderurgici partecipanti al bando scorso sono spariti, non è detto che ci saranno dei player che concorreranno, con questi chiari di luna.

Il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, è netto: «Non c’è alcuna garanzia sulla presenza dello Stato nella futura società; è prevista la possibilità di vendere singoli stabilimenti o impianti; non c’è certezza né sull’esistenza né sulla destinazione del polo Dri; mancano elementi concreti sulle modalità di approvvigionamento di energia e gas per alimentare la futura produzione. La montagna ha partorito il topolino: un testo senza alcun valore o vincolo. È inaccettabile: i lavoratori e le comunità hanno bisogno di rispetto e verità». Alla luce di un documento che solleva più dubbi che certezze, i sindacati chiedono ora un confronto a Palazzo Chigi. Insomma, più che un traguardo, quella ottenuta da Urso e dai firmatari sembra una vittoria di Pirro.

E il sindaco di Taranto, Piero Bitetti? Dopo lampi, saette e dimissioni-blitz contro le proposte di Urso, eccolo ora firmare — da primo cittadino — una carta che, per citare un vecchio adagio popolare, è buona giusto per incartare il pesce.

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