Correva l’anno 1964 quando inno nazionale e trombe ne salutarono l’inaugurazione. Nasceva l’Autostrada del Sole, la più lunga d’Italia con i suoi 760 chilometri, dopo soli otto anni di lavori. Un’opera non soltanto ingegneristica, ma anche un’opera di grande valore nazionalistico. Doveva ricucire l’Italia uscita lacerata dalla guerra.
Il problema è che ago e filo si fermarono a Napoli, sancendo una volta per tutte che c’è un’Italia e c’è un resto d’Italia.
Poi di autostrade ne sono state fatte altre, che hanno compreso anche la diversamente Italia. Ma il danno era fatto. Con una coazione a ripetersi quando si è fatta l’alta velocità ferroviaria: sempre fino a Napoli, più piccola coda a Salerno tanto per far vedere. E senza gli esami di riparazione come con le autostrade, visto che i Frecciarossa vanno anche altrove, ma operando un miracolo: appena arrivati al resto del Sud, diventano di bassa velocità. Mistero della fede.
In questo quadretto si inserisce il Ponte sulla Stretto di Messina. Tanto chiacchierato da potersi definire il Ponte dei Sospiri. O, per evitare il plagio con Venezia, il Ponte della Cuccagna. Passati quasi sessant’anni dalla prima legge che lo prevedeva. Sessant’anni in cui ci sono state più andate e ritorni di un bus extraurbano. Il caso più clamoroso al mondo di un ponte che si sente più che vedersi. Fino all’ultimo annuncio di inizio agosto: si fa. Magari l’ultimo di nove annunci precedenti, con un crescendo di date d’inizio che ora la vedrebbero fissata a questo autunno. Con l’inghippo della Corte dei Conti che ha chiesto chiarimenti, cui si risponderà in una ventina di giorni. Si assicura.
A volerlo è un ministro convertito al Sud sulla via di Damasco, una via vagamente elettorale. Ma siccome c’è il diritto costituzionale di contraddirsi, l’essenziale è che si farà. Nel proclamarlo col suo vocione lombardo è Salvini, ora ministro più sudista che si può. Fino al punto da vedersi mugugnare da quelli dei suoi che vagheggiano ancora roba come la Padania e Sud da derattizzare. Inutile qui infliggerci il rosario dei pro e dei contro da parte di esperti e meno esperti, ambientalisti e meno ambientalisti, economisti e meno economisti, antropologi e meno antropologi, gente di strada e gente della strada. Se collezioniamo i pareri degli uni e degli altri nel tempo, mettiamo in crisi anche l’intelligenza artificiale la cui memoria è pur sterminata.
E se andiamo in giro, vedremo che non ne troviamo uno che non ne abbia una idea tanto convinta quanto basata su basi calcistiche come se si stesse fra juventini ed interisti. Dal punto di vista del chiacchiericcio, il Ponte ha già vinto.
Solo per parlare di Paesi in cui si va più per le spicce (e soprattutto Paesi in cui non è invalso un «dalli al Sud») l’ex ministro Baldassarri ha citato quanto avvenuto nel profondo Nord d’Europa da circa trent’anni. E cioè la costruzione di un ponte di 15,9 chilometri e di un tunnel sottomarino di quattro per collegare la Danimarca alla Svezia, da Copenaghen a Malmoe. Costato 43 miliardi di euro, ma avendo ridotto a 50 minuti in auto e a 25 col treno ad alta velocità un tragitto fra le due sponde per il quale occorrevano 4-5 ore di viaggio. Roba dell’altro mondo.
Ma il Ponte no. Non è questa una perorazione a farlo o non farlo, Dio ci scampi e liberi dal miliardesimo parere in campo. Perché quando ci sono troppi pareri, è come se non ce ne fosse uno. Ma, per dire, anche per il Mose di Venezia ci sono stati più dubbi di quante alte maree forse trattiene. Ma poi il Mose si è fatto, pur fra arresti e tangenti che solo per il Ponte sullo Stretto si preconizzano a prescindere. E lasciamo stare anche il trito «lo vuole l’Europa» benché sia vero per una Europa che appunto vuole ora Bruxelles dalle parti di Messina più che delle nebbie belghe. Un Sud che sia Europa protesa sul Mediterraneo nuovo centro del mondo di fronte all’Africa futuro del mondo. Col Ponte che così davvero non ricucirebbe solo l’Italia ma un continente fra Helsinki e La Valletta.
Né conta imbarcarsi in argomenti concreti tipo che costa ai siciliani più non farlo che farlo tanto in maggior costo del viaggio quanto in reddito perduto. Lasciamo stare.
E di lasciando stare in lasciando stare la vita, anzi il Ponte, se ne va. O forse questa volta no. O forse sì. L’unica cosa certa sulla montagna biblica delle incertezze è che la Sicilia senza Ponte isola era e isola resterebbe. Perché il Ponte sullo Stretto non è un Ponte ma una idea diversa d’Italia. Perché il Ponte sullo Stretto non è un ponte ma una psicologia. Perché il Ponte sullo Stretto non è un ponte ma una saldatura. E più che saldare un ponte, la fiamma ossidrica salderebbe un Paese volutamente fratturato. Un pensiero più che un’opera. L’altra faccia della menata dei Mille e compagnia bella.
Ecco, contro il Ponte questo finirebbe per essere l’argomento più fondato, il più definitivo studio di fattibilità. Se non si farà, sarà un Paese che ancora una volta non si farà. Dicasi: «Non s’ha da fare».