La sentenza della Corte Costituzionale sulla legge in tema di autonomia differenziata ha provocato reazioni diverse nel centrodestra. Da un lato, abbiamo apprezzato interventi che mal celavano una certa soddisfazione, quasi un sospiro di sollievo, perché alla fine ci ha pensato la Consulta a censurare ciò che in tanti, nella maggioranza, non hanno avuto il coraggio di contestare. Dall’altro, abbiamo osservato l’insofferenza trionfante di certi protagonisti settentrionali, tra cui Zaia, il Presidente lombardo Fontana e lo stesso promotore della legge, il ministro Calderoli, i quali, pur di non ammettere la sconfitta sul campo, si sono detti vincitori perché «l’autonomia si può fare».
Calderoli si è addirittura difeso dietro un ragionamento un po’ sgangherato fondato sui numeri: «La mia legge - è arrivato a dire - è fatta di 11 articoli e 45 commi», mentre la Consulta ha riscontrato «solo» 7 motivi di incostituzionalità. Secondo lui, insomma, la legge va bene così e servirà solo un ritocchino per rimetterla in corsa, perché sulle tante cose che dice, solo pochissime sono state censurate. Una logica, mi consento di dire, un po’ sconclusionata, forse a causa della disperazione. Perché sarebbe come dire che la Corte si è limitata a buttare giù poche pareti dell’edificio normativo di Calderoli, mentre invece ad essere demoliti sono stati proprio i muri portanti.
Che l’autonomia si possa fare non è una novità. C’è scritto chiaro e tondo in Costituzione. E, d’altronde, nessuno di noi ha mai avuto nulla da contestare su questo. Abbiamo detto, piuttosto, un’altra cosa: l’autonomia, così come la state facendo, non si può fare per una lunga serie di motivi, che attengono anzitutto alla conformità con la Costituzione.
E, infatti, la Corte ha sollevato questioni di legittimità su tutti i punti che contestavamo: il bilanciamento dell’autonomia con altri principi costituzionali fondamentali (unità della repubblica, eguaglianza e garanzia di diritti dei cittadini, solidarietà tra regioni, equilibrio di bilancio, sussidiarietà), la devoluzione di specifiche funzioni e non di intere materie, la definizione e aggiornamento dei LEP con leggi approvate dal Parlamento e non con atti del Governo o DPCM, il pieno coinvolgimento delle Camere nell’iter delle leggi di differenziazione (che la legge Calderoli, invece, rimetteva all’esclusiva trattativa tra Governo e giunta regionale), il superamento della spesa storica e l’adozione dei fabbisogni standard come parametro per il trasferimento delle risorse (che da solo costerebbe all’incirca 100 miliardi), il dovere (e non la facoltà) delle regioni differenziate, di concorrere agli obiettivi di finanza pubblica, la necessità di finanziare un piano di perequazione che cozza palesemente con la clausola di invarianza finanziaria decisa da Calderoli.
Il ministro, insomma, più che compiacersi per quel poco che è rimasto della sua riforma, dovrebbe prendere atto di tutto ciò che è stato giustamente demolito.
Anche le parole di governatori del Sud come Occhiuto sembrano quantomeno tardive. È troppo facile, oggi, a pronuncia avvenuta, salire sul carro dei vincitori. Per quanto il presidente calabrese e alcuni (pochissimi) altri esponenti del centrodestra abbiano dato una parvenza di contrarietà durante l’iter della legge, nessuno ha mai «osato» davvero opporsi alla follia secessionista della Lega. Perché, soprattutto alla luce di quanto detto dalla Consulta, tale bisogna considerare la legge Calderoli: un tentativo di fuga in avanti, in totale contraddizione con i principi essenziali della nostra Carta costituzionale.
E se - come c’è da augurarsi - la Cassazione darà il via libera per il referendum, saranno gli italiani con il loro incontestabile voto a rifiutare l’idea di un’Italia irreversibilmente spaccata in due. Ma anche in quel caso bisognerà stare attentissimi a non trasformare quell’espressione popolare nella contesa tra destra e sinistra o ancora peggio tra cittadini del Mezzogiorno e resto del Paese, perché in gioco non c’è il destino delle singole parti politiche o di porzioni territoriali ma il senso stesso dell’unità nazionale. E questo va preservato sopra ogni cosa.