Non siamo tifosi dell’osservazione ansiogena dei risultati locali per trarne la predizione sul futuro elettorale della nazione, per il semplice fatto che si tratta di partite del tutto diverse e con percentuali di astenuti e liste partecipanti non sempre sovrapponibili. Oltre, naturalmente, alla peculiarità del voto amministrativo rispetto a quello politico.
Tuttavia, se leggiamo gli ultimi due episodi, Sardegna e Abruzzo, seguendo l’uso un po’ nevrotico dell’analisi politica che va tanto di moda, ed estrapoliamo il risultato della destra, balza subito all’occhio un dato: la salute di Forza Italia è più salda di quella della Lega di Salvini, tanto da ribaltarne il rapporto.
Che era fino a qualche tempo fa parecchio soverchiante in favore dei salviniani. La situazione dei numeri regionali sembra oggi nettamente favorevole ai forzitalioti: 6,3 per gli eredi di Berlusconi contro 3,7 dei salviniani in Sardegna, 13,4 per Forza Italia in Abruzzo, contro il 7, 5 della Lega che perde addirittura 20 punti sul risultato del 2019 in favore della Meloni, mentre Fi sopravanza agevolmente il 9% raccolto col carisma di Silvio Berlusconi ancora vivo.
E questo a tacere dell’attestazione di salute discreta che viene anche dai sondaggi elettorali, generosi con Fi al punto da confermare qualche presagio di sorpasso su un Salvini calante. Insomma: appaiono smentiti gli oscuri vaticini che s’addensavano intorno al partito alla morte del fondatore, immaginando che Silvio Berlusconi - su cui persino la politologia aveva speso cospicue riflessioni battezzando la fortunata fattispecie del “partito personale” - avrebbe portato nella sua dimora ultraterrena la sua creatura, forse dopo un docile ma ineluttabile stillicidio.
Invece no: non solo il compagno Tajani è vivo e lotta insieme a noi, ma, addirittura, sembra usare il suo approccio morbido, ellittico, rassicurante, che talvolta ricorda Arnaldo Forlani nello sfumato grigio degli abiti e della sua arte oratoria, per piantare la bandierina moderata in un territorio che vede i sodali far politica digrignando i denti.
Il «mite Tajani», dunque, tiene botta, intestandosi l’appartenenza alla famiglia popolare europea e il rapporto privilegiato con Weber e Ursula Von der Leyen, declina parole di senso compiuto sulla lealtà atlantica e sulle guerre dietro casa, ostenta la fede liberal-democratica ponendosi come il centrista della prima ora e non come la neo-moderata Meloni che è in Europa pur sempre la leader di un partito parecchio sbilanciato sul fronte non propriamente europeista. Fa tutto questo salmodiando ogni giorno il grato ricordo al fondatore, e la gente gli va dietro, almeno il popolo più moderato del fronte destro, smentendo le previsioni di un subitaneo Anschluss da parte di Fratelli d’Italia. La strategia tajanea si avvale di un oggettivo vantaggio di posizione: Salvini così sbilanciato sulla linea «impeto e assalto», impone nell’economia della coalizione un riequilibrio per evitare il deragliamento dell’alleanza. Questa condizione restituisce una impreveduta centralità a Forza Italia, che, peraltro, anche nella politica interna riesce a rappresentarsi, almeno nelle forme, più dialogante e meno contaminato dalla sindrome dell’assedio che sembra colpire il partito maggiore della coalizione. Se poi alla resa dei conti di giugno il PPE si dovesse trovare a stringere il solito patto di legislatura con i socialisti del PSE, Tajani resterebbe la chiave per consentire la comunicazione politica tra i nuovi vertici europei e Giorgia Meloni.
Non male per un outsider che sembrava capitato quasi per caso a capo del partito personale di Berlusconi.