I baresi? Restano un popolo nato per soffrire. Succede, incredibilmente, che nel giorno del plebiscito popolare per la mossa Iachini tocchi ingoiare l’umiliazione figlia dell’ennesima scivolata di Aurelio De Laurentiis. Sì, proprio il proprietario «tuttocampista» del Napoli (e del Bari) che, non pago di aver «distrutto» con una serie di scelte scellerate il fantastico gioiello da scudetto, ha pensato bene di tirare un cazzotto in faccia alla gente di Bari. In uno dei suoi sempre più insopportabili soliloqui, il patron ha espresso concetti irricevibili. Preso dalla smania di dimostrare, una volta di più, di essere il più bravo e furbo del mondo, don Aurelio ha deliziato la platea definendo il Bari «la nostra seconda squadra», addirittura descritta come l’esempio virtuoso di una collaborazione che ha portato patrimonializzazioni (Cheddira e Folorunsho ma ci sarebbe anche Caprile tra i tesserati del Napoli). Toni e contenuti che vanno rispediti, in fretta e furia, al mittente. Ricordando, a chiunque, che Bari ha diritto alla propria dignità. E che nessuno, nemmeno il «padrone delle ferriere», può permettersi di calpestarla. Mai!
Una giornata che... a volerla inventare ci vorrebbe un regista da Oscar. Cinema o teatro, sta di fatto che è andato in onda un imbarazzante teatrino. Con Luigi De Laurentiis che prende le distanze dal padre e «padrone» nel goffo tentativo di dimostrare che le gestioni di Napoli e Bari sono affari ben separate. E il «padrone» che fa sapere di essere stato frainteso. Come se quelle sue esternazioni siano una novità e quel suo modo di rivendicare il «dominio» sia solo una suggestione dei giornalisti, quelli che lui ama di tanto in tanto ama mandare al diavolo per non correre il rischio che qualcuno possa lontanamente pensare di giocare ad armi pari con lui. Equivoco o no, la realtà è sotto gli occhi di tutti. E mai come stavolta il campo c’entra fino a un certo punto. Qui la gente vive di orgoglio e «maglietta». E certi affronti non si cancellano con quattro chiacchiere messe goffamente insieme. Città spaccata, fibrillazione ai massimi livelli. Chi semina vento...
Finalmente una mossa da... Bari, intanto. A Cesare quel che è di Cesare. Era dai tempi della fantastica cavalcata fino alla B che da queste parti non si parlava il linguaggio che piace alla gente. Il verbo dell’ambizione, scelte figlie della necessità di scongiurare il rischio di recitare ancora il ruolo di comparsa. L’ingaggio di Beppe Iachini è un pugno sul tavolo. Forte, rumoroso. Con la «mano» di una società che non può più permettersi gestioni in cui la «scommessa» diventa l’unica strada percorribile.
Quando punti su un allenatore vincente (quattro promozioni in A) e che ha dimostrato tante volte di saper gestire al meglio spogliatoi «pesanti» è chiaro che hai fatto una scelta precisa. Lo raccontano l’investimento (circa un milione e mezzo il costo del tecnico marchigiano e del suo staff) e la durata del contratto (scadenza 2025). Aver mosso uno come Iachini vuol dire solo una cosa: chiudere col passato e tornare a pensare in modo ambizioso.
Iachini è un ottimo allenatore, certo. Ma di professione non fa il mago. Andrà accompagnato in questa nuova e stuzzicante avventura. Per vincere servono calciatori di qualità e funzionali. Serve pensare calcio in modo coerente, senza pericolose acrobazie. Tutto quello che non è successo nel teatrino di quest’anno. Quando si è passati, con inaccettabile disinvoltura, dal rinnovo di Mignani alla soluzione Iachini. E in mezzo quel Marino che, nelle intenzioni di Polito, avrebbe dovuto certificare il fallimento dello stesso Mignani e che, invece, beffardamente ne ha certificato l’«innocenza».