Tecnicamente non è un femminicidio. Ed infatti, non è stato classificato così lo scorso anno.
Per questo non possiamo parlare un’altra Giulia prima di lei.
Eppure, a Pesaro un’altra donna il 26 dicembre di un anno fa è morta, ma questa volta è stato rubricato come suicidio.
Eppure, ora i colleghi della vittima – perché di una giudice si è trattato – stanno indagando sul marito per maltrattamenti.
Con lui inquisito anche il figlio dei due, un ragazzo di soli 15 anni di cui si occuperà il tribunale dei minori.
Perché ora a distanza di un anno ci si accorge anche di quest’altra perdita ma che una differente dinamica non ci consente di catalogare come femminicidio anche se sostanzialmente è la medesima cosa?
Perché i colleghi della vittima, che per competenza territoriale sono quelli di stanza a L’Aquila, stanno indagando sul marito che in passato era stato attinto da richieste di custodia cautelare in carcere per ben sei presunti tentativi di inquinamento delle prove, respinte però dal GIP.
Eppure, la giudice ne portava i visibili segni sul corpo e finanche sul volto.
Ne erano testimonianza, come si evince dalle parole di un familiare, i messaggi di Whatsapp inviati alla madre che certificavano lividi ed escoriazioni su varie parti del corpo, viso compreso che per una persona esposta al contatto con un pubblico numericamente importante non è cosa da poco, non foss’altro per nasconderli e motivarli di volta in volta.
Eppure, è successo.
E per di più ad un’addetta ai lavori.
È pur vero che, come Presidente di una sezione civile del tribunale, non si occupava di reati che sono appannaggio esclusivo dei giudici del settore penale, ma pur sempre una donna di legge, capace di conoscere il diritto e le norme specifiche in tema di difesa delle donne.
Una donna che, pur usando i giusti strumenti che la legge pone a disposizione di tutte noi, non è riuscita a farli valere.
Non possiamo criticare, né commentare nel merito i provvedimenti con i quali il GIP ha respinto le richieste di custodia cautelare firmate dall’organo inquirente.
Non ne conosciamo le motivazioni e solo per questo non possiamo.
Ma un dubbio ci sorge spontaneo: quei lividi e quelle escoriazioni come se le è procurate?
Nessuna donna può fingere di averle subite.
Una giudice che fa di serietà e credibilità gli elementi cardine della propria esistenza anche al di fuori delle prestazioni professionali, non può non aver raccontato ai colleghi del penale le cose come effettivamente stavano.
Eppure, è successo.
Eppure, la custodia cautelare per motivazioni importanti (ricordiamo che era per inquinamento delle prove) strumentali all’indagine sui maltrattamenti che sono ora al vaglio dei giudici sarebbe stato provvedimento oltremodo necessario ed opportuno.
Eppure, la giudice non c’è più.
Non molto sappiamo dei particolari della vicenda, è ancora sub iudice e fin quando non ci sarà una sentenza che accerterà e ricostruirà nei minimi particolari la complessa dinamica che l’ha contrassegnata non possiamo esprimerci in merito.
Ma una cosa certa è che dietro questo suicidio ci sono anni di vessazioni, sofferenze, ma soprattutto difficoltà ad esprimerle e manifestarle.
Perché, quando sei un rappresentante della legge, tanto più in posizione di vertice, istituzionalmente preposto all’erogazione del servizio giustizia, questi avvenimenti che inevitabilmente escono dalla sfera personale per approdare nelle aule di giustizia, sono ancor più difficili da rendere pubblici.
La cronaca ci riporta che anche il figlio avrebbe avuto dei gravi problemi di cui nulla si sa perché la stessa vittima si rifiutava di parlarne.
Un coacervo di motivazioni tutte generate dal brodo di coltura della violenza fisica e morale che, quando sei un rappresentante delle istituzioni, di questo ramo in particolare, è difficile da contrastare perché essere un tutore della legge in questi casi è uno svantaggio più che un privilegio per il discredito immediato che pensi di riceverne in termini di credibilità nonostante ad essere la vittima sei tu.
Una donna, in queste situazioni, è facile a colpevolizzarsi, lo sappiamo, ce lo dice la cronaca, ce lo dicono le ricostruzioni fattuali delle vicende, ce lo dicono le dirette interessate che riescono a sopravvivere a cotanta violenza.
Ed il carnefice lo sa.
Ed anche tu lo sai preferendo, come in questo caso, morire per mano tua.