Il Governo canta vittoria per la valutazione fatta dalle agenzie di rating sulla sostenibilità del nostro debito pubblico, ma è vera gloria? C’è da considerare, sulla questione, che la materia è molto tecnica e che verosimilmente la gran parte degli elettori la ritiene confinata al dominio degli addetti ai lavori. Tuttavia, il significato politico della valutazione non dovrebbe sfuggire. A partire dalla ormai celebre dichiarazione di Giorgia Meloni che, pochi anni fa, nel febbraio 2018, ebbe a sottolineare che a lei interessa «la voce dei mercati rionali» non di quelli finanziari. Chiariamo innanzitutto i termini generali del problema.
Dall’inizio del Novecento, esistono agenzie private - negli USA - che effettuano valutazioni sulla capacità di rimborso dei debiti. Si chiamano agenzie di rating, i cui nomi più famosi sono Standard and Poor’s e Moody’s. Le valutazioni vengono effettuate con metodi quantitativi o qualitativi, ovvero - in quest’ultimo caso - affidandosi a esperti, in grado di valutare la capacità di un debitore di onorare il prestito. Le agenzie di rating valutano anche le prospettive di crescita, ovvero quello che in gergo è definito «outlook».
Nei tempi più recenti queste agenzie hanno perso autorevolezza e reputazione, a cominciare dall’ottima valutazione che da loro fu data a Lehman Brothers, la grande banca d’affari statunitense fallita clamorosamente - all’inizio della grande crisi globale del 2008 - pochissimo tempo dopo aver ricevuto l’approvazione di Moody’s. Va detto, però, che, ciò nonostante, le pagelle del rating aiutano a orientare le scelte di acquisto e vendita dei titoli di Stato da parte dei risparmiatori, dunque a certificare l’affidabilità creditizia. Analoga sorte è stata per Enron e Parmalat, all’inizio degli anni Duemila. C’è poi la circostanza che queste agenzie hanno spesso conflitto di interessi con i soggetti valutati e, anche per questa ragione, ne è compromessa l’affidabilità.
La votazione massima che si ottiene è di tre A, nel caso vi sia rischiosità nulla del credito. La lettera C contrassegna la peggiore valutazione. Ebbene, l’Italia ha ricevuto Bba3, che significa appena sufficiente, e le è stata accordata la revisione dell’outlook, che passa da «negativo» a «stabile». Non è, dunque, vera gloria: si tratta di un modesto miglioramento che evita, almeno nel breve periodo, che i nostri titoli di Stato siano considerati «spazzatura».
Va notato che il Fondo monetario internazionale ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita contenute nei documenti governativi, dall’1.2% allo 0.7%.
La Commissione europea ha successivamente considerato la Legge di stabilità del governo Meloni «non pienamente in linea» con i criteri che occorre rispettare in sede comunitaria. La valutazione definitiva verrà fatta nella primavera prossima, ma è sufficiente questa considerazione per porre in secondo piano, di fatto, il giudizio delle agenzie di rating. Ciò in considerazione del fatto che la Commissione europea, soprattutto in fase di revisione del Patto di stabilità e crescita (revisione che lo farà entrare di nuovo in vigore nel 2024, dopo la sospensione negli anni della crisi sanitaria), ha il potere di spingere il Governo a mettere in atto revisioni sostanziali dei suoi programmi di spesa.
I rilievi della Commissione sono sostanzialmente due. In primo luogo, viene osservato che la manovra italiana è la più austera in Europa. In secondo luogo, ciò nonostante, si ritiene il deficit italiano (e il suo debito) ancora eccessivo e si prefigura una procedura per deficit eccessivo, da attuarsi verosimilmente in primavera.
Non sussistono, quindi, molte ragioni, da parte governativa, per essere contenti. Nonostante la palese contraddizione fra dichiarazioni e pratica governativa (sono semmai i mercati finanziari e contare di più, per Meloni oggi, rispetto a quelli rionali) e nonostante le molte insoddisfazioni generate dalla «prudenza» del Ministro Giorgetti (a partire dal mancato superamento della Legge Fornero, per carenza di risorse), i risultati restano modesti.