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Castrazione chimica, l’inutile idea per combattere gli stupri

 
Federica Resta

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Federica Resta

caivano

Drammatica, cruciale, questione sociale, sintomo di un vero e proprio «disagio della civiltà» e che chiama in causa molteplici fattori di ordine culturale, educativo, relazionale

Lunedì 11 Settembre 2023, 13:50

La brutale ferocia del branco a Palermo, l’orrore reiterato- e taciuto - a Caivano, ma anche le violenze (anch’esse di gruppo) inferte a Milano a una quattordicenne, accertate da due ordinanze di custodia cautelare di una settimana fa. È, questo, solo un frammento della drammatica geografia della strage che si consuma, ogni giorno, sulla pelle delle ragazze, come ha ricordato il presidente Mattarella, violandone la dignità assieme al corpo e segnandone, quasi sempre irreversibilmente, il futuro.

Il dato probabilmente più preoccupante è che i protagonisti di queste atrocità sono, troppo spesso, ragazzi, che dovrebbero condividere, con coetanee quali sono le loro vittime, quell’educazione sentimentale richiamata da Dacia Maraini, nell’intervista a «La Repubblica» del 27 agosto e da Sergio Lorusso, su queste pagine. Ma se spetta alla magistratura accertare le responsabilità individuali per questi intollerabili abusi, proprio la loro frequenza e diffusione, anche in contesti sociali molto diversi, non può non interrogare la politica, con l’urgenza che impongono le più serie questioni sociali.

E proprio di questo si tratta: di una drammatica, cruciale, questione sociale, sintomo di un vero e proprio «disagio della civiltà» e che chiama in causa molteplici fattori di ordine culturale, educativo, relazionale. La «piscina degli orrori» di Caivano (dove tre anni fa una ragazza fu uccisa dal fratello, perché innamorata di un trans) è, del resto, la risultante di componenti diverse. Tra queste hanno un ruolo determinante il degrado, l’assenza dello Stato in tutte le sue forme, la mancanza di impegni formativi per i ragazzi, la tendenza diffusa (come ovunque), alla compiaciuta esibizione sul web della propria capacità di sopraffazione, brutale e spietata.

Ed è la convergenza di queste componenti, ad attrarre i ragazzi in una dimensione i cui vuoti sembrano poter essere riempiti, solo, dall’ebbrezza che dà la «microcelebrità» del web. Alla relazione, al confronto, all’esperienza vissuta insieme si sostituisce, così, la gara sui social a un like in più, strappato persino al prezzo della vita degli altri, come nel caso del bambino investito, a giugno, da alcuni youtuber intenti a girare una videochallenge. Quando la vita e la dignità dell’altro si riducono a mero strumento per l’affermazione di sé attraverso la prevaricazione, con una violenza agita e poi esibita online, è evidente che ragionare solo sulle responsabilità individuali (pur gravissime, da accertare e condannare), senza affrontare il dramma sociale in cui si inscrivono, rischia di essere riduttivo e, per ciò, fuorviante.

Come fuorviante può risultare la tendenza, ricorrente nella politica italiana, a ridurre la complessità delle più cruciali questioni sociali a mera materia penale, secondo un approccio che finisce con il curare il sintomo ma non la malattia. Ha ragione Maurizio De Giovanni, nell’individuare più nelle scuole aperte il pomeriggio che nella mera risposta penale, la soluzione al dramma di Caivano.

E anche nella scelta della risposta sanzionatoria, soprattutto di fronte a delitti che, per l’incommensurabilità del danno causato, sembra non si possano - con le parole di Hannah Arendt - «punire né perdonare», è ricorrente la tentazione della «pena esemplare». Ovvero di una pena tutta fondata sull’incapacitazione del reo e su una componente retributiva così forte da scivolare nella logica vendicativa da cui, invece, la giustizia deve poter prescindere.

Suscita, per questo, interrogativi ben più che il decreto-legge sulle baby gang, la proposta annunciata qualche settimana fa (già avanzata anni fa per la pedofilia e giudicata negativamente dal Comitato nazionale di bioetica) di introdurre la castrazione chimica per gli abusanti. Essa, infatti, oltre a risultare di dubbia efficacia (essendone discussa, anche a livello scientifico, la funzionalità, come abbiamo già scritto con Luigi Manconi) rischierebbe di riportare la pena alla sua dimensione esclusivamente e riduttivamente corporale. E questo, paradossalmente, in un’epoca in cui la pena, da «arte di sensazioni insopportabili» è divenuta «economia di diritti sospesi» (Foucault).

Per delitti che sono alimentati soprattutto dall’incapacità di percepire il valore della dignità dell’altro, si dovrebbe invece valorizzare, con percorsi realmente formativi e rieducativi, quella componente di reinserimento sociale che, secondo Costituzione, legittima la pena, come inesauribile scommessa dell’uomo sull’uomo.

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