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Vivere e morire ad agosto in Italia: da Taranto ai diritti sconosciuti

 
Luca Basso

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Luca Basso

Vivere e morire ad agosto in Italia: da Taranto ai diritti sconosciuti

Integrazione, inclusione e accoglienza devono essere considerate un servizio pubblico, al pari di Scuola e Sanità, e lo Stato italiano deve riuscire a garantirle

Lunedì 14 Agosto 2023, 14:14

A Taranto una donna georgiana ha abbandonato il bambino che aveva appena partorito accanto a un cassonetto. Non in ospedale, non in un parco, non nella sala d'aspetto di una stazione o in un negozio. Lo ha lasciato accanto a un cassonetto. Il bambino era vivo, anzi era in salute, curato e pulito. Lei è stata rintracciata, ora è ricoverata in ospedale, con quel parto fatto in casa anche la sua vita era a rischio.

Come è arrivata a questa scelta? Mi colpisce, tra le tante cose, la scelta del luogo dell’abbandono. In Italia è possibile partorire in anonimato e in sicurezza, e la legge consente alla madre di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell'ospedale.

Temo che la mamma di Lorenzo non lo sapesse. Temo che si tratti di un altro dramma della solitudine e del disorientamento sociale; sola, senza riferimenti, in un posto in cui non conosce nessuno e tutti parlano un’altra lingua, la ragazza non ha avuto gli strumenti per affrontare una grave difficoltà, non ha incontrato nessuno in grado di aiutarla, di accompagnarla in un percorso consapevole, si è comportata in modo irrazionale. Questo deve interrogarci. Stavolta è andata bene, Lorenzo sta bene. Come andrà la prossima volta?

A Torino Susan, nigeriana, detenuta per tratta di esseri umani e altri gravi reati, ha rifiutato il cibo fino alla morte perché non le consentivano di vedere i suoi figli. Non capiva le ragioni di questa pena aggiuntiva. Lei si proclamava innocente. Chi ha esperienza di questioni di immigrazione sa che Susan potrebbe (il condizionale è indispensabile) essere contemporaneamente colpevole e innocente.

In quel gigantesco buco nero che sono le carceri italiane, dove sovraffollamento e carenza di personale riducono quasi a zero ogni possibilità di reinserimento, c'è un problema nel problema: la condizione dei detenuti stranieri, a cui vengono spesso negati, per l’assenza di servizi di mediazione linguistica, culturale e sociosanitaria, alcuni elementari diritti costituzionali come il diritto alla difesa, il diritto alla salute e il diritto d’asilo. Un fatto inaccettabile per un Paese democratico.

Per molti cittadini stranieri detenuti nelle carceri italiane e impossibile conoscerle le proprie condizioni di salute, interloquire con un medico o con il proprio difensore, seguire l’iter delle procedure relative ai permessi di soggiorno. Un progetto pilota nel carcere di Bari realizzato con Garante per i detenuti e ARCI Bari ha dato negli anni scorsi risultati importanti, ma rischia di rimanere un episodio.

E infine a Rovereto: un cittadino migrante con conclamati problemi psichiatrici ha barbaramente ucciso una donna incontrata per caso. Si è saputo poi che da tempo era stato richiesto per lui un TSO e che da mesi minacciava la vita dei suoi familiari e dei suoi vicini.

Sono davvero tanti gli stranieri che arrivano in Italia con gravissimi danni psichici. Solitamente si tratta del frutto delle torture subite nelle carceri libiche, traumi impossibili da superare senza l’intervento di specialisti e terapeuti. Possibilità che solitamente in Italia non hanno. Nelle carceri libiche i diritti umani sono regolarmente calpestati nel silenzio colpevole dei diversi Governi italiani (di sinistra e di destra) che da anni con quei regimi collaborano salvo poi pagarne le conseguenze quando ci si trova a contatto, nelle nostre città, con questa umanità devastata.

Non mi stancherò mai di ripeterlo: integrazione, inclusione e accoglienza devono essere considerate un servizio pubblico, al pari di Scuola e Sanità, e lo Stato italiano deve riuscire a garantirle. Per il bene dell’intera comunità nazionale. Sta a noi decidere se considerare i cittadini stranieri un problema o una risorsa.

Un sistema serio di inclusione organizzato sul territorio e gestito dagli enti locali potrebbe garantire la sicurezza delle comunità, uno sviluppo economico positivo e armonico, un miglioramento della natalità, una convivenza civile e serena, senza contare il risparmio sul sistema sanitario nazionale e sul sistema carceraria.

È tempo di ragionare in termini di sistema, abbandonando definitivamente questioni «etniche», identitarie e nazionalistiche e guardare, finalmente, con occhi nuovi al futuro del Paese.

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