Menti raziocinanti nelle cose giuridiche sottolineano la distinzione fra validità ed efficacia. Una norma degna di questo nome deve possedere entrambi gli attributi. In caso contrario è materia caratterizzata dall’inerzia. A volte sopraggiunge con il passare degli anni, quando un precetto normativo validamente approvato da organi assembleari cade in uno stato di parziale o totale inefficacia. Il fenomeno è fonte di gravi conseguenze se riferito a norme fondamentali. Quelle che, come insegna la migliore civiltà giuspolitica laica e occidentale, fungono da tavola genetica di un ordinamento. Lo fanno stabilendo come debba funzionare una democrazia costituzionale che, come tale, s’incentra sulla protezione dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
L’esempio è fornito dall’articolo 32 della Costituzione italiana, che impone allo Stato di tutelare la salute come, appunto, «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività».
Solennemente iscritta nella Carta repubblicana, questa disposizione sta perdendo gran parte della sua efficacia. A testimoniarlo sono 2,5 milioni di persone che, nella quotidiana fatica dell’esperienza umana, rinunciano alle cure a causa delle liste d’attesa del servizio sanitario nazionale (SSN). È quanto si afferma in un recente rapporto dell’ISTAT, i cui contenuti assumono i tratti della tragedia, oltremodo segnata da 1,7 milioni di soggetti affetti da patologie croniche. La rinuncia tocca ogni parte d’Italia, raggiungendo punte di intollerabilità al Sud. Tanto che in dati contesti territoriali l’unico modo per ottenere una prestazione sanitaria in tempi ragionevoli è mettere mano al portafogli e accedere a modalità private o intramoenia, anch’esse sovente intasate dalle richieste. Con buona pace di chi non se lo può permettere e dello stesso articolo 32, in cui espressamente si afferma la necessità di «garantire cure gratuite agli indigenti». I quali, in effetti, con tragica rassegnazione aspettano mesi o addirittura anni per una prestazione cardiologica, ginecologica, pneumologica e oncologica ovvero per una mammografia o una ecografia addominale. Spia, questa, della crisi di sostenibilità del SSN, la cui intensità s’è incrementata negli ultimi anni raggiungendo vette impensate dopo l’emergenza da Covid-19. Lo ha fatto fra l’indifferenza dei governi che, tagliando o non investendo nel servizio, dimostrano una sostanziale incapacità nel riformarlo in modo da rimuovere gli ostacoli verso una effettiva eguaglianza nel settore della salute.
L’incapacità dei governanti emerge anche dalla pervicacia con cui si sponsorizzano congegni normativi buoni solo per interessi corporativi e permanenti ordalie elettorali. Lo sono quelli afferenti ai LEP, i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che, ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. In ambito sanitario hanno indossato le veste mediaticamente rassicurante dei LEA, dei cioè livelli essenziali di assistenza, gli unici fissati fino ad ora. L’ultimo aggiornamento tabellare risale al 2017. Da allora evidenze empiriche danno conto di risultati non proprio edificanti, bollati da enormi diseguaglianze regionali che rendono la questione meridionale in sanità un’assoluta priorità. Priorità non percepita dal Governo in carica e da una parte dell’opposizione che, con il Ministero capeggiato dall’On.
Calderoli, li elevano a paradigma dell’omonimo disegno di legge sull’autonomia differenziata (si veda sul punto l’intervento su questo giornale del 17 marzo 2023).
Al punto che, nell’atmosfera rovente del 25 luglio 2023, dopo aver affossato la proposta di legge sul salario minimo e votato l’obbrobrio giuridico del reato universale di maternità surrogata, i capigruppo dell’attuale maggioranza parlamentare hanno irritualmente proposto un ordine del giorno con cui s’impegna il Senato a sostenere il progetto calderoniano: deve essere approvato «in tempi rapidi» e «nell’ambito delle riforme costituzionali, previste nell’accordo di programma di Governo votato dagli italiani, incluso quella volta a realizzare la massima forma di democrazia attraverso l’espressione diretta della volontà popolare». È la prova del baratto politico tra le istanze autonomiste della Lega e le velleità presidenzialiste di Fratelli d’Italia, come se le due cose possano stare assieme senza strafalcioni costituzionali.
E questo nonostante un corposo documento dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio e le dimissioni dal Comitato per l’individuazione dei LEP di acclamati giuristi (fra gli altri, Giuliano Amato, Franco Bassanini, Franco Gallo e Alessandro Pajino): invano hanno denunciato i pericoli del ddl Calderoli, tanto più impattanti se legati alla tutela della salute, premessa essenziale per lo «ius existentiae», nel senso di una vita libera e dignitosa delle persone, di tutte le persone, Non è vero, rispondono esponenti della maggioranza e di una parte dell’opposizione: i LEP e l’autonomia differenziata servono proprio a garantire una sostanziale uguaglianza nel godimento dei diritti costituzionali, compreso quello fondamentale alla salute. Nel suono enfaticamente gonfio delle parole, le disposizioni costituzionali vengono in tal modo dissecate sul banco di una astrazione cinicamente perversa e di una informazione colpevolmente assente. Roba da basso impero, si potrebbe aggiungere, se non fosse che quello odierno si alimenta di assidui falsari, ridicoli oppositori, ingordi intellettuali, organiche accademie, pollai televisivi, fosse socioinformatiche, atrofici ed inutili cantori.