Può apparire strano, eversivo e provocatorio che il Ministro della giustizia, nell’imminenza dell’anniversario della strage di via Amelio che costò la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta, affermi che il concorso esterno in associazione mafiosa «non esiste come reato», lo definisca un ossimoro, «perché o si è dentro o si sta fuori e concorrere dal latino vuole dire stare dentro», «se sei concorrente non sei esterno e se sei esterno non sei concorrente», lo ritenga una «formula abbastanza evanescente», preannunciandone la rivisitazione con l’introduzione di una norma ad hoc che superi le incertezze applicative manifestatesi nel corso degli anni.
In realtà il tutto nasce dalla storia controversa di questa fattispecie, ben nota agli addetti ai lavori ma non anche ai comuni cittadini che possono essere tratti in inganno dalle parole del guardasigilli e, soprattutto, dal loro utilizzo strumentale.
Come spesso accade quando si disquisisce di mafia e chiunque abbia un ruolo nella vita pubblica viene colto dall’irrefrenabile desiderio di appuntarsi sul petto una medaglia al valore che possa fruttare in termini di consenso e/o di visibilità.
In breve, il concorso esterno non è nei codici ma è il prodotto di un’elaborazione giurisprudenziale, cristallizzata in una sentenza della Corte di cassazione del 1994 che «fonde» due norme per dare copertura a un’area grigia di illecito altrimenti non coperta dalla nostra legislazione. È questo il punto.
Perché la vera questione è che una previsione del genere risulta paradigmatica di quel rimescolamento dei rapporti leggi e giudici che costituisce un tratto identitario della giustizia penale della post-modernità: come afferma un autorevole giurista, che ha dedicato tantissimi studi alla materia dei reati associativi, la partecipazione criminosa costituisce uno strumento formidabile «di dilatazione della discrezionalità giudiziale», che consente di assegnare in maniera inappropriata a quest’ultima le scelte in materia di incriminazione riservate dall’ordinamento al legislatore (Gaetano Insolera, 1995). Con buona pace dei principi (cardine) di determinatezza e di tassatività e, dunque, del principio di legalità.
È in questo quadro che vanno calate le dichiarazioni di Carlo Nordio, con un atteggiamento laico e scevro da pregiudizi e condizionamenti, considerando peraltro che il ministro è – e continua ad essere – più un giurista che un politico, dunque poco attento ai contesti e ai momenti in cui esprime le proprie opinioni, consolidate e reperibili nei suoi scritti, talvolta risalenti. A differenza di Giorgia Meloni, politica pura, che non a caso si è premurata di intervenire precisando tempestivamente che è preferibile concentrarsi su altre priorità e «contrattaccando» con l’annuncio di un prossimo decreto-legge che dovrebbe contenere l’interpretazione autentica del concetto di «reato di criminalità organizzata» al fine di scongiurare i possibili effetti negativi derivanti da una recente (ma non recentissima) sentenza della Cassazione (34895/2022).
Il tutto a riprova dell’immutato interesse del governo per la tematica del contrasto alla criminalità organizzata.
Le esternazioni del guardasigilli, tuttavia, hanno scatenato una serie (prevedibile) di reazioni più o meno misurate e appropriate. Sarebbe troppo chiedere, almeno per temi come questi, un’unità di intenti che superi polemiche pretestuose che indeboliscono il fronte del contrasto alla mafia?
La lotta alla criminalità organizzata, per essere vincente, deve essere svolta in maniera unitaria. Le divisioni – reali o apparenti che siano – sono un sintomo di debolezza, dal quale le organizzazioni criminali non possono che trarre vantaggio, magari insinuandosi abilmente in esse.
Lo Stato, insomma, deve apparire compatto perché unico è l’obiettivo, nel nome del bene comune. Di tutto si può discutere, di quali siano gli strumenti migliori per combattere il fenomeno mafioso (e le associazioni dedite all’illecito in genere), ma a guidare il dibattito non possono essere gli intendimenti personali. Resta sempre valido l’insegnamento di Leonardo Sciascia, intellettuale in controtendenza che metteva in guardia dai «professionisti dell’antimafia» (1987) proprio mentre tutti discettavano del pericolo mafioso. Scrittore eretico – e per questo scomodo – che per primo aveva descritto la mafia in un romanzo (Il giorno della civetta, 1961) quando ancora l’esistenza della mafia veniva negata a livello istituzionale. E che, tuttavia, non poté fare a meno di evidenziare i pericoli di una lotta alla mafia trasformata in occasione per fare carriera o, peggio, per rendere inoffensivi gli avversari politici.
Trentasei anni dopo ben poco è cambiato.