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Berlusconi, quei tagli all’istruzione alla base del declino

 
Guglielmo Forges Davanzati

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Guglielmo Forges Davanzati

Caro bollette, Berlusconi: «Sterilizzare con un decreto gli aumenti»

La riforma Gelmini produce un sottofinanziamento selettivo delle sedi universitarie, a danno di quasi tutte quelle del Mezzogiorno, introducendo la quota premiale per la loro assegnazione e ponendo gli Atenei in concorrenza fra loro

Lunedì 19 Giugno 2023, 13:30

Nel 2009 - sotto il Governo Berlusconi II - si riduce, per la prima volta dagli anni Cinquanta, la spesa per la formazione scolastica e universitaria in Italia. La spesa pubblica per l’istruzione cresce, infatti, a partire dal secondo dopoguerra, con forte accelerazione a partire dal 1971. Fra il 1971 e il 1984 passa dal 2.9% del Pil al 4.8%, raggiungendo nel 1984 il valore più alto. Da allora si stabilizza intorno a una percentuale del 4.5% per ridursi, appunto dopo il 2009, al 3.9% del 2019.

Non è accettabile la motivazione per la quale si stava riducendo, a cavallo degli anni Dieci, il saldo demografico, dal momento che, in quella fase, Paesi con la nostra stessa struttura della popolazione (in particolare, Germania e Giappone) spendevano più di noi per formazione e istruzione.

Sono gli anni, quelli del secondo governo Berlusconi, del tremontiano «con la cultura non si mangia», della riforma Gelmini e della celebre frase del Cavaliere per la quale «se facciamo le migliori scarpe del mondo, perché pagare gli scienziati?».

La riforma Gelmini produce un sottofinanziamento selettivo delle sedi universitarie, a danno di quasi tutte quelle del Mezzogiorno, introducendo la quota premiale per la loro assegnazione e ponendo gli Atenei in concorrenza fra loro.

Un lascito molto negativo e importante di quella fase consiste nel riconoscere che la Destra berlusconiana non ha mai capito le cause del declino economico italiano. Si tratta della rilevante caduta del tasso di crescita della produttività del lavoro, che si inscrive nel quadro della perdita di competitività subita a seguito del nostro ingresso nella globalizzazione degli anni Ottanta-Novanta. Uno dei fattori che ha contribuito all’erosione dell’importanza delle nostre produzioni nel commercio internazionale è la perdita di capacità innovativa; la quale appare strettamente dipendente dal calo – o dal non aumento – della spesa, sia pubblica sia privata, in formazione, istruzione, ricerca scientifica.

Berlusconi non concepì neppure la necessità di incentivare maggiore innovazione nel settore privato e, sul piano comunicativo, contribuì a rafforzare nell’opinione pubblica la convinzione che non vi fossero crisi economiche nel nostro Paese. Contrariamente a tutta l’evidenza disponibile. Si trattava del gioco di finanza creativa lasciato a Tremonti, ovvero il tentativo (perdente) di migliorare le aspettative di imprese e consumatori con le parole di Palazzo Chigi.

L’eredità di questo berlusconismo è pessima: abbiamo una percentuale bassa di laureati e poche sedi universitarie nel confronto con i nostri principali partner europei.

L’istruzione – è utile ribadirlo – un fondamentale input per i processi produttivi contemporanei oltre a essere il veicolo essenziale dei diritti di cittadinanza: un Paese poco istruito, di norma, produce poco, è dipendente strutturalmente da altri, e soffre di problemi di coesione sociale, di insediamento di criminalità, di scarso rispetto delle norme formali e informali vigenti.

Vi è da riconoscere che i successori di Berlusconi al Governo non hanno fatto molto meglio di lui sulla questione, ma aver dato vita al problema non è certamente motivo di vanto.

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