Non occorre certo la marcia su Roma ovvero l’assalto al Palazzo d’Inverno per ritenere innescato un processo politico di natura rivoluzionaria. Insegnano Vezio Crisafulli, Costantino Mortati e Massimo Severo Giannini, ovverosia i massimi studiosi di diritto pubblico del secolo scorso, che anche attraverso radicali riforme legislative può realizzarsi, in una determinata fase storica e politica, un mutamento dell’ordine costituzionale precostituito tanto radicale da doversi definire di natura rivoluzionaria, quando risultino del tutto sovvertite le regole fondanti del sistema precedente.
È quanto sta accadendo nel nostro Paese dietro la spinta sovversiva (una volta si sarebbe detto: «controrivoluzionaria») del governo Meloni, realizzata attraverso proposte di significativi mutamenti della nostra Carta costituzionale apertamente e radicalmente eversivi del modello repubblicano voluto e disegnato dai padri costituenti.
Faccio evidente riferimento al combinato disposto tra la proposta leghista di differenziare la potestà legislativa e di governo tra le Regioni in cui è diviso lo Stato italiano e quella della destra meloniana di trasformare la natura costituzionale della nostra Repubblica, oggi parlamentare, in quella presidenziale, radicalmente e profondamente diversa. Ancorché in rapida sintesi, il luogo della nostra riflessione non ci consente altro, analizziamo l’essenza costituzionale della c.d. autonomia regionale differenziata e cerchiamone la sintonia con la suprema carta, posto che essa dovrebbe trovare disciplina costituzionale e collocarsi al suo interno.
Andiamo con ordine. Principi fondanti della nostra Costituzione, quelli cioè che ne disegnano la struttura, che ne costituiscono l’essenza sia politica sia giuridica e che per questo sono ritenuti dalla dottrina pubblicistica immodificabili, intangibili, anche se tali non espressamente considerati da alcuna norma costituzionale, sono quelli descritti dall’art. 3. Ricordiamoli. «Tutti i cittadini», si legge al primo comma, «sono eguali davanti alla legge» senza distinzione alcuna. «È compito della Repubblica», aggiunge il secondo comma, «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini ….». Stiamo evocando il principio di uguaglianza e quello solidaristitico, il primo universalmente considerato inalienabile pilastro della nostra democrazia, il secondo assunto dai costituenti come la finalità essenziale ed irrinunciabile dell’azione politica di governo, come profilo strutturale dell’ordinamento giuridico dello Stato.
Ebbene, come può ragionevolmente ritenersi coerente con tali pilastri della nostra costituzione una autonomia tra le potestà legislative delle nostre regioni, peraltro intesa, senza infingimenti, come autonomia economica dei rispettivi territori, quando all’interno dello Stato italiano convivono una delle regioni più ricche dell’Europa occidentale, la Lombardia, ed una delle più povere, la Calabria? Di più. I cosiddetti livelli minimi essenziali di determinati servizi (che dovrebbero comunque essere assicurati a tutti) sono la fotografia delle disuguaglianze oggi esistenti tra le regioni italiane e la rinuncia dello Stato ad operare per superarle, come, viceversa, impone il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione al fine di assicurare l’uguaglianza sostanziale tra tutti i cittadini italiani di cui al precedente comma primo.
Non meno dirompente dell’ordine costituzionale sono il presidenzialismo, pieno ovvero a metà poco importa, ovvero il premierato, istituti attraverso i quali si intende abbattere la repubblica parlamentare voluta dai padri costituenti che a quella scelta pervennero dopo l’esperienza del fascismo e della Resistenza. L’assemblea costituente volle un modello repubblicano articolato in plurimi centri di potere, financo implementando la tradizionale tripartizione teorizzata dal Montesquieu. Al parlamento, titolare del potere legislativo, al governo repubblicano, titolare di quello esecutivo ed all’ordine giudiziario, titolare della potestà giurisdizionale, la nostra Costituzione aggiunge due istituzioni di controllo, di armonizzazione e di equilibrio tra i poteri dello Stato: la Corte Costituzionale ed il Presidente della Repubblica eletto dal parlamento in seduta comune con rappresentanze regionali. E non è casuale che queste due istituzioni siano quelle che meglio hanno resistito all’usura politica della storia e che oggi appaiono come le più «forti» nel nostro modello di democrazia.
Il nostro Presidente svolge funzioni e ruoli super partes di straordinaria rilevanza democratica, regola i poteri, gli armonizza, veglia sul buon andamento del sistema democratico della Repubblica e questo è possibile proprio per il particolare procedimento di superiore autorità legislativa che porta alla sua nomina. Occorre una ampia convergenza politica, occorrono riconosciute qualità umane, politiche, culturali per meritare quella fiducia. E non può negarsi che i nostri costituenti seppero vedere lontano e seppero legiferare all’altezza del loro compito. La storia 3 della Repubblica italiana può vantare presidenti di grande valore, di varia estrazione politica, ma sempre autorevolissimi sul piano politico e personale, sempre degni del ruolo svolto, mai indirizzato verso interessi che non fossero quelli superiori del nostro popolo.
Introdurne l’elezione diretta, ovvero quella diretta del Presidente del Consiglio (la differenza non è tanta) significa, anche in questo caso, stravolgere il modello democratico dettato e delineato dalla Costituzione, limitare la forza democratica del nostro sistema, trasferire dal parlamento eletto dal popolo ad un uomo (o una donna) soli al comando il cuore della nostra Repubblica e questo in tempi di diffuso e deteriore populismo ed avvilenti demagogie integra un grave pericolo per il nostro Paese.