Noi ci stiamo allontanando sempre di più dalla natura. Perché la natura è anche introspezione, solitudine, calma interiore, silenzio. E questa modernità ci porta verso l’esterno, l’esibizione, il frastuono. Il silenzio è nostro nemico.
Da più di un secolo stiamo abbandonando le aree interne e le campagne per trasferirci nelle città, perché abbiamo bisogno di stimoli, di soddisfare curiosità e ambizioni, di uscire dall’isolamento, di accendere fari sul nostro ego. Ma intanto la natura ha le sue leggi, e noi queste leggi le conosciamo sempre meno, e sempre più spesso le subiamo attoniti.
Questo è solo uno dei motivi per cui siamo inermi e spaventati di fronte agli eventi straordinari della natura, perché a onor del vero anche in passato, quando il rapporto degli esseri umani con la natura era più forte e simbiotico, certi eventi si subivano con impotenza e con disperazione. È il caso dell’alluvione del Polesine, che nel 1951 ferì a morte un territorio nel quale da sempre contadini e pescatori avevano vissuto con estrema confidenza la natura. Quindi da un lato siamo più inermi; dall’altro inermi lo siamo sempre stati, anche se un po’ di meno, perché eravamo tutti meno cerebrali.
La situazione drammatica che si sta vivendo nel Bolognese e in Romagna in queste ore è sicuramente la conseguenza dei mutamenti climatici in atto. E noi con queste manifestazioni violente e imprevedibili dobbiamo sempre di più fare i conti, perché noi non li dobbiamo solo combattere, i cambiamenti climatici, ma anche imparare ad adattarci a queste nuove emergenze, che concettualmente bisogna iniziare a valutare come ordinarie. Tutto cambia, e a noi tocca accettare il cambiamento, evitando di ragionare come se le cose non cambiassero mai.
Ma il tema del nostro rapporto conflittuale con la natura rimane. È dai tempi della «dialettica dell’illuminismo» di Horkheimer e Adorno che è chiaro che la nostra idea di sapere è orientata da questa pretesa di esercitare un potere sulla natura, costretta in ogni modo alla nostra ragione e alle nostre ragioni. E tuttavia la natura, se pure noi pensiamo di dominarla con la ragione, la scienza e la tecnologia, alla fine fa sempre sentire la propria forza. Con la differenza, rispetto al passato, che ora noi siamo più inermi e spaventati, perché siamo tutti più cerebrali, metropolitani, incorporei e virtuali. Siamo allarmati e spaventati perché la natura non la conosciamo. E, quando la conosciamo – al di là di una piccola minoranza – la conosciamo filtrata da un pensiero consolatorio, bucolico, new-age, senza comprenderne a fondo le leggi.
Più ci allontaniamo dalla natura e più ci infragiliamo. E questa è una dinamica mondiale, perché dappertutto le persone abbandonano le aree rurali e le campagne e decidono di vivere nelle civiltà urbane. Tutto questo comporta non solo una scarsa conoscenza della natura – alla quale bisogna aggiungere anche l’impotenza di fronte ai fenomeni legati alla crisi climatica – ma una crescente delega alla tecnologia e agli investimenti pubblici e privati il compito di provare a tenere sotto controllo la natura. E tuttavia, nonostante questa intelligenza – artificiale e non – il miglior custode della natura rimane l’essere umano, che per secoli si è preso cura dei boschi, dei fiumi, dei mari, delle montagne, ecc.
La natura ci fa paura. Ci siamo disconnessi dagli elementi fondamentali della vita – il fuoco, l’acqua, l’aria, la terra. È una mutazione epocale. Ormai le nostre vite avvengono tutte nel cervello, nella sfera mentale – razionale, emotiva, sensoriale, conoscitiva – e consideriamo poco interessante capire i venti, il corso delle acque e le regole delle colture. Siamo tutti immersi in una estrema elefantiasi cerebrale. E questo, nel mentre ci rende sempre più stimolati, ambiziosi, connessi e «sapienti», ci allontana sempre di più dalla natura, che o è cartolina bucolica consolatoria oppure apocalisse paralizzante.
Però non dobbiamo sempre rimproverarci qualcosa. A volte sarebbe sufficiente ammettere di essere stati travolti da qualcosa di più grande di noi. Non tutte le morti sono evitabili. Pensarlo è una delle tante manifestazioni della nostra tracotanza conoscitiva, uno dei nostri tanti deliri «illuministici» di onnipotenza. A volte basterebbe fermarsi e piangere i morti con umiltà. Anche nel 1951, nel Polesine, una popolazione affatto cerebrale e metropolitana non poté che accettare la sciagura e piangere disperatamente i morti. Ammettere la nostra piccolezza e la nostra impotenza sarebbe un buon modo per iniziare a smorzare quest’assurdo delirio di dominio e di onnipotenza che abbiamo un po’ tutti.