La Corte penale internazionale dell’Aja ha in questi giorni spiccato un mandato d’arresto per il crimine di guerra di «deportazione illegale di popolazione (bambini) e di trasferimento illegale di popolazione (bambini) dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia» nei confronti di Vladimir Putin e di Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini presso il Cremlino.
Con una reazione irrituale Dmitry Medvedev ha commentato l’irrilevanza legale dell’atto per il suo paese rappresentando l’uso e la destinazione dello stesso con l’immagine di un rotolo di carta igienica.
Dimentica il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo che a riconoscere la legittimità della Corte sono oggi al mondo ben 123 paesi, aderenti al trattato di Roma, in vigore dal 1 luglio 2002. «Putin deve soltanto fare un passo fuori della Russia e si troverà a utilizzare la carta igienica della prigione dell’Aja» ha ribattuto la ex procuratrice della Corte, Carla dal Ponte. La deportazione dei bambini è un crimine di guerra assai grave, mai contestato, anche nei tre rilevanti precedenti, che hanno visto L’Aja accusare Slobodan Milosevic, l’ex leader serbo, Omar-al-Bashir, l’ex presidente del Sudan, Muammar Gheddafi, l’ex leader libico.
Sin dagli albori del conflitto russo-ucraino, alla luce degli episodi e delle testimonianze documentali, il sospetto di crimini di guerra, quale la mobilità coatta di migliaia di bambini ucraini, è affiorato più volte. La decisione dei giudici, sulla base di prove, ci aiuta a capire la dinamica specifica, ma soprattutto conferma una tendenza sullo scacchiere geopolitico: ormai la storia del mondo si scrive sempre più con i processi e le indagini, cioè attraverso l’amministrazione della giustizia.
I contemporanei, spinti dagli aneliti della verità, non hanno più il tempo e la serenità della ricostruzione storica per distendere un occhio lungo e disincantato su quanto accade loro: contese, contrasti, soprusi e crimini unilaterali intervengono imponendo la lente d’ingrandimento del procedimento giudiziario sulle responsabilità, con la conseguente somministrazione di leggi e sentenze.
Le ragioni di questo intreccio insolubile di storia e giustizia sono molteplici. Si può partire da quelle più oggettive: la creazione e il presidio di Corti e Statuti internazionali a difesa dei deboli e delle vittime di violenze; la sempre più frequente e inestricabile radicalizzazione degli eventi e del giudizio sugli stessi; l’inaccessibilità di documenti che rimangono segreti per molti decenni, prima che escano dagli archivi di Stato e facciano luce.
Ma poi ci sono ragioni più soggettive: i pregiudizi, le ideologie e le divisioni hanno da sempre fatto ombra alle scelte degli uomini, soprattutto quando, come accade sempre più spesso, attingono a comportamenti criminali e si ammantano dell’etichetta delle scelte democratiche.
La robustezza e l’ortodossia di una storiografia sono state spesso incrinate dalla partitocrazia o dalle ideologie, o dalle pagine che, copiose, vengono scritte sempre dai più forti e dai vincitori. Nelle vicende italiane della prima metà del Novecento, grandi fenomeni come la mafia, la corruzione, l’intera stagione dello stragismo, gli anni di piombo del terrorismo sono stati avvolti e serviti in una nube di misteri e di segreti che hanno visto dischiudersi l’operosità, il dinamismo soprattutto dei Tribunali, a colmare le incerte ricostruzioni.
Ora il bisticcio di una giustizia che surroga la funzione degli storici, invece di una storia che ricostruisce e decanta, si ripropone in questi mesi anche di fronte a fenomeni sconvolgenti come la pandemia, l’ondata di migrazioni, che reclamano interventi riparatori attraverso inchieste della magistratura.
Avvenimenti epocali che – sia ben chiaro – pur essendo doverosa la risposta all’anelito di trasparenza, attendono una indagine piena sulle cause e le radici perché la storia possa diventare davvero «magistra vitae» e non un cassetto di ricordi e di memorie cui attingere a piacimento.