Sabato 06 Settembre 2025 | 22:57

Il cellulare a scuola? Tutto dipende dall'uso che se ne fa

 
Lino Patruno

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Lino Patruno

Il cellulare a scuola? Tutto dipende dall'uso che se ne fa

Col cellulare-computer si possono fare ricerche per le quali prima si telefonava alla Cultura della «Gazzetta». Può funzionare come vocabolario. Come enciclopedia

Venerdì 30 Dicembre 2022, 14:03

La domanda è mal posta. Certo, se tu chiedi: cellulari a scuola o no? Pochi non sarebbero (e non sono stati) d’accordo col ministro all’istruzione Valditara. Il quale ha intimato un drastico ordine di espulsione per quegli aggeggi che invece fanno parte di tutto il resto della nostra vita. Ma a scuola no, va a finire che i ragazzi invece di seguire italiano e matematica stiano solo a giochicchiare con Tik Tok e Instagram. Magari poi avranno la crisi di astinenza. Ma la scuola è una cosa seria e già siamo il popolo più ignorante d’Europa. Con livelli di dispersione, cioè di abbandono, sempre da asini continentali.

Ma un’altra domanda, fosse anche quella del cretino, preme: scusi, ma come mai con cellulari e computer (che sono la stessa cosa) abbiamo cambiato (e migliorato) in ogni campo la nostra esistenza, e non possiamo farlo anche a scuola? Il digitale, come si dice, è il nuovo alfabeto dell’umanità. E non risulta che qualcuno di noi il vecchio a-b-c l’abbia imparato da solo. Col digitale può avvenire ciò che avvenne con Gutemberg. Il tipografo che, inventando i caratteri di stampa nel 1400, diffuse una conoscenza prima monopolio degli amanuensi e dei pochi al potere. Cultura per tutti e democrazia. Compreso il protestantesimo, che grazie ai libri scalfì il monopolio più monopolio di tutti: il cattolicesimo.

Chiunque possa ci salvi e liberi da progetti come Scuola 4.0 da finanziare col Pnrr. Non tanto per sua invalidità, ma per sua minacciosità linguistica.

Sentire parlare di «ecosistemi di apprendimento» o di «pedagogie innovative quali apprendimento ibrido», di «pensiero computazionale», di «apprendimento esperienziale», di «insegnamento delle «multiliteracies» e «debate» e «gamification» spiega perché ci siamo tanto disturbati mentali in giro. Ma non si capisce perché ciascuno debba imparare da sé il nuovo alfabeto senza il quale oggi quasi non sappiamo e possiamo più muovere un passo. Ci piaccia o no. È vero che i bambini oggi non nascono più (per quelli che ci fanno la concessione di nascere) con le dita ma con i tastini incorporati. Ma qualcuno gli dovrebbe far capire come non usarli solo per inviarsi messaggi e foto.

Col cellulare-computer si possono fare ricerche per le quali prima si telefonava alla Cultura della «Gazzetta». Può funzionare come vocabolario. Come enciclopedia. E ci sono software, programmi, con i quali la storia e la vita nella storia sono mostrate come se avvenissero oggi invece dell’indigeribile sequela di nomi e date. La quasi unanimemente odiata matematica può diventare più amata della squadra del cuore cambiando il solito gessetto alla lavagna (pur elettronica che sia). È vero che la scuola non è un’azienda anche se così l’hanno trasformata con tanto di mercatino dei programmi formativi. E che dovrebbe educare e fornire il sapere, non insegnare un lavoro. Ma è anche vero che ogni innovazione ha trovato l’ostilità dei benpensanti, a cominciare dalla ruota.

C’è un’idea più bislacca di un commento calcistico di Daniele Adani. Insomma con lo smartphone lavoriamo, vediamo un film, comunichiamo, firmiamo contratti, ci facciamo addirittura curare dal medico. Ma la scuola no: c’è solo distrazione alla porta. E così lo cacciamo col cartellino rosso per manifesta incapacità di tenerlo in campo. Quando i ragazzi potrebbero farsi la lezione da sé, o farla con l’insegnante. Mentre, se nuovo alfabeto è, un’ora di informatica a settimana in ogni scuola sarebbe cosa buona e giusta. Cioè cellulare non radiato, ma adottato. Non gioco ma conoscenza. Altrimenti per insegnare i numeri si usi ancora il pallottoliere. Ci dovrebbe pensare meglio il ministro se non vuole essere un ministro delle caverne. E se non vuole passare come il solito ministro non delle riforme ma delle controriforme.

Perché già stiamo facendo più danni di un no vax in pandemia. Abbiamo in Italia la popolazione più anziana del mondo dopo il Giappone. E la lasciamo alla impotenza e alla frustrazione di fronte ai nuovi mezzi tecnologici mentre ci riempiamo la bocca di «transizione» (appunto) digitale. Ci fu un tempo in cui un maestro di nome Manzi fece uscire il Paese dall’analfabetismo. Faceva lezioni da una trasmissione tv intitolata «Non è mai troppo tardi». Trasmissione Rai, visto che ci riempiamo sempre la bocca di servizio pubblico e poi facciamo disservizio pubblico.

Di un Manzi 2.0 oggi non si parla nemmeno. E i nonni devono diventare smart così, grazie alla provvidenza (e a qualche residuo nipote più caritatevole che irridente). Anzi facciamo di più. Via i cellulari anche per i nipoti, così imparano a stare a scuola dove non devono imparare.

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