Quali scenari si possono tracciare per i prossimi due anni riguardo alle principali economie del mondo? E riguardo a quella italiana? Ci aiuta a rispondere a queste domande l’ultimo rapporto previsivo del Fondo Monetario Internazionale (FMI), uscito la scorsa settimana. Il Fondo è forse il principale organismo internazionale di analisi economica che ci sia al mondo, pubblica il suo rapporto (World Economic Outlook) ogni anno in ottobre e lo aggiorna l’aprile successivo. Si occupa di 190 Paesi, praticamente di tutto il pianeta, ma dedica ovviamente particolare attenzione alle economie più grandi e importanti, come quella americana, quella europea, quella cinese.
Il rapporto di ottobre 2022 appare gonfio di preoccupazione, quasi di ansia, per le sorti delle nostre economie. Esordisce avvertendo che nuvole nere si addensano all’orizzonte e che il peggio deve ancora arrivare. Prosegue citando i tre fatti che stanno pesando sulle prospettive economiche del mondo: la guerra di aggressione della Russia in Ucraina, le forti pressioni inflazionistiche, il rallentamento brusco dell’economia cinese.
I primi due fatti sono arcinoti e sotto gli occhi di tutti, al terzo si fa meno attenzione nelle opinioni pubbliche del mondo, ma è potenzialmente molto pericoloso per le nostre economie, che si sono abituate a considerare la Cina, oltre che un importante mercato di sbocco, una formidabile piattaforma produttiva per le imprese di tutto il mondo. Queste hanno impiantato in quell’immenso territorio molti pezzi delle lunghe «catene globali del valore» attraverso le quali si producono quasi tutti i beni e anche molti servizi. Il rallentamento cinese ha cause interne, discende dai prolungati lockdown imposti per fronteggiare una pandemia recalcitrante alla politica di zero-Covid del governo cinese e dalla implosione del settore immobiliare - un quinto dell’economia di quel Paese - dopo anni di crescita disordinata.
Il rapporto elenca quindi una impressionante serie di rischi che stiamo correndo e che potrebbero peggiorare il quadro previsivo, a cominciare dai rischi bellici. Ma, coerentemente con la sua natura e la sua missione, il FMI si concentra sull’inflazione, quindi sulla risposta di contrasto all’inflazione che stanno mettendo in campo le principali banche centrali. Il rischio è duplice: che la risposta sia troppo debole o troppo forte. Come faccia una banca centrale a frenare l’inflazione ho provato a spiegarlo in un mio precedente articolo («Gazzetta» del 4 ottobre) a cui faccio rimando. Ricordo solo come lo strumento convenzionale sia un rialzo dei tassi d’interesse a breve termine, tassi che le banche centrali governano. I tassi a breve finiscono col trascinare con sé nella salita quelli a tutte le altre scadenze, il credito disponibile per l’economia tende a rarefarsi e l’economia rallenta, fino a entrare eventualmente in recessione. A quel punto anche l’ascesa dei prezzi si raffredda.
Dunque una banca centrale, per combattere l’inflazione secondo il mandato che le è assegnato, deve infliggere all’economia quello che ho chiamato altre volte un «danno necessario». Il guaio è che, come lo stesso rapporto del FMI rammenta, gli effetti restrittivi sulla crescita si avvertono ben prima di quelli sull’inflazione. Il FMI ammonisce ciononostante le banche centrali che il rischio di sbagliare per eccesso è inferiore a quello opposto, perché se non si è decisi e severi abbastanza nel contrastare l’inflazione questa può radicarsi nelle attese della gente e poi occorrerà una dose ben più forte di restrizione per domarla. Ma quando si ha a che fare, intanto, con persone licenziate o, come in Italia, messe in cassa integrazione perché le imprese falliscono e chiudono come conseguenza diretta della severità della banca centrale, non è facile trovare il giusto bilanciamento.
Ora veniamo alle aride cifre. Secondo il rapporto del FMI, l’economia americana chiuderà il 2022 con una crescita media dell’1,6%, ridotta all’1 l’anno prossimo. Trimestre per trimestre, però, la crescita, si azzera alla fine di quest’anno e riprende a salire nel corso del prossimo. La stessa dinamica (prima giù, poi su) vale per l’area dell’euro, che tuttavia in media d’anno, mentre chiude il 2022 con un ben più robusto 3,1%, deve accontentarsi nel 2023 di un più magro mezzo punto percentuale. L’economia italiana parte ancora più alta (3,2% nella media del 2022), entra in recessione l’anno prossimo, chiude l’anno in ripresa ma con una media d’anno leggermente negativa (-0,2%). Insomma, nonostante tutti i rischi così drammaticamente sottolineati, lo scenario di rallentamento/recessione è blando e temporaneo. Anche l’inflazione è prevista raggiungere un picco nella prima metà dell’anno prossimo e poi rallentare un po’ dovunque, anche se lentamente: ci metterebbe alcuni anni a tornare al quasi zero a cui si trovava fino all’anno scorso.
Da parte mia aggiungo qualche considerazione sull’Italia e in particolare sulla condizione della finanza pubblica. In questo momento siamo in una fase di tassi d’interesse reali negativi: vuol dire che i rendimenti che si pagano indebitandosi sono inferiori (e di gran lunga) al tasso d’inflazione. Una situazione in cui in generale conviene indebitarsi, per lo meno se tutti gli altri «prezzi» (prezzi al consumo, tariffe, stipendi) corrono di più. Il debitore principale d’Italia è lo Stato, che ha vissuto una fase simile negli anni ‘70 del secolo scorso. Fu una specie di ubriacatura, col debito pubblico che esplose. Il debito pubblico di oggi, in parte eredità di quegli anni lontani, sta faticosamente scendendo. Speriamo che il FMI ci veda giusto quando preconizza un’inflazione in discesa dal prossimo anno, dimodoché a nessuno venga la tentazione di tornare a mezzo secolo fa.