Perché un delitto a Pescara, l’uccisione in un bar dell’architetto Walter Albi, interessa queste latitudini apulo-lucane? C’è una ragione più concreta del verso «Nessun uomo è un’isola», tratto dalle Devotions, di John Donne. Il capoluogo abruzzese è da decenni meta di una migrazione interna paragonabile a quella dei newyorkesi che si trasferiscono in Florida per cercare una migliore qualità della vita. Dapprima gli studi universitari, poi l’insediamento lavorativo, infine l’edonismo di una classe benestante attempata che vuole godersi il tramonto della vita fra passeggio elegante, shopping, cene sulla riviera o in collina.
Tempo fa si leggeva sul sito locale: «Pescara è città semplice… a “misura d’uomo”, non ancora invasa dal turismo di massa, dove ospitalità, buona cucina e vitalità potranno rendere “unico” il vostro soggiorno in riva al mare». Forse era vero fino agli anni ‘60, quando già Ennio Flaiano, un pescarese che ha segnato la cultura nazionale, ne lamentò il «degrado per modernizzazione».
È dello scorso aprile il ferimento grave di Yelfri Guzman, il giovane cuoco dominicano di un risto-bar in centro, cui aveva sparato Federico Pecorale per il il servizio troppo lento. Nel gennio 2012, poco distanza dal luogo della sparatoria del 1 agosto, era stato ammazzato Italo Ceci, ex componente della banda Battestinini, gruppo di fuoco pescarese che terrorizzò la costa adriatica negli anni ‘80 e ‘90. Nella notte fra il 5 e il 6 ottobre 1991, il legale Fabrizio Fabrizi fu freddato con cinque colpi calibro 7,65 alla presenza della collaboratrice e compagna, Patrizia Donatelli. Se ne discusse addirittura in una puntata monotematica su Pescara di «Samarcanda». Dopo tante svolte giudiziarie, l’omicidio è irrisolto. Non però la sua lettura contestuale. Pescara stava cambiando. Finché nella classifica annuale compilata dal «Sole24 Ore» per il 2016 la città viene collocata al 15esimo posto in Italia, su 106, fra quelle più pericolose, stando al rapporto fra popolazione e reati. L’anno precedente vi risultano 17 mila 171 crimini su circa 120 mila abitanti.
D’altronde, l’altissima densità di vetrine in centro si è perduta con la dissennata apertura di ipermercati fuori dalla cinta urbana. Al posto dei negozi griffati, botteghe etniche dinanzi alle quali si formano assembramenti sospetti. La zona centrale perde glamour. Divenuta il cuore di una movida rumorosa, alcolica, aggressiva, contro la quale si scatenano solamente polemiche incrociate, senza che si riesca a conciliare le ragioni degli esercenti con quelle dei residenti. Guido Piovene negli anni ‘50, fra le pagine di Viaggio in Italia, descrisse Pescara quale miniatura di Los Angeles. Purtroppo, come la metropoli californiana, era destinata a un’inquietudine urbana irreversibile.
Si è provveduto allo sgombero della casba situata per anni sotto il contrafforte della ferrovia. Lì stazionavano con i loro banchi vendita senegalesi e nigeriani. Più volte minacciati dagli xenofobi di Forza Nuova, che quando a suo tempo venne in visita l’allora Ministra Cecile Kienge tappezzarono Pescara di cartelli con la scritta “l’immigrazione è l’oppio dei popoli”. La scelta del termine non era metaforica, come in Marx. Una consistente parte dello spaccio, infatti, proviene tutt’ora nella comunità africana.
Le esplosioni sempre più frequenti di violenza a Pescara risentono del disorientamento sociale e antropologico di un posto passato dalla crescita e dall’opulenza alla crisi odierna. Vi si aggiunge l’alta percentuale di divorzi. La famiglia perde la sua funzione stabilizzante di solidità per divenire un periodo transitorio di coppia. Succede anche altrove, dato il dilagare della condizione post-moderna. Solo che nell’Abruzzo dalla forte tradizione familiare, il disfacimento dei legami produce effetti devastanti. Lo si capisce anche sul piano visuale. Pescara è una città che sfugge di continuo fuori dai vetri dell’auto, nel traffico incessante e ossessivo che può arrivare a distruggere la percezione del senso.