Di questi tempi è difficile che un lettore, per quanto affezionato, ringrazi il proprio giornale. In particolare sui social che sono un terreno non mediato dove gli schiaffi «tirano» più delle carezze. Eppure molti lo hanno fatto in riferimento alla scelta della «Gazzetta» - condivisa dalla maggior parte dei media, ma non da tutti - di non inserire online il video della morte del 40enne di Molfetta precipitato in un pozzo durante la sua festa di compleanno. Grande lo sdegno in città per le immagini circolate a velocità supersonica sulle solite chat di Whatsapp ma anche su qualche testata di peso nazionale. «Una vergogna dei nostri tempi» - come è stata definita da più voci - che, purtroppo, non riesce a sorprenderci.
È singolare, davvero, il rapporto che la società contemporanea ha con la morte, l’evento che più di ogni altro rivela l’esistenza dei limiti umani. Anzi del limite, l’unico che non si riesce a rimuovere. Abbiamo ormai abbattuto ogni barriera: c’è gente senza gambe che corre i cento metri, uomini che diventano donne e viceversa, a breve potremo fare i turisti su Marte oltre che «ordinare» regolarmente figli a qualche agenzia privata in base al nostro gradimento estetico (qualcuno già lo fa ed è anche successo che lo abbia riportato indietro perché non conforme alle richieste). Insomma, ogni ostacolo può essere superato. Tranne la morte. E quindi la società del «diritto alla felicità» ha pensato bene di censurarla. Non riuscendo in alcun modo a stabilire con essa un qualche tipo di rapporto, di «addomesticamento», l’ha semplicemente messa alla porta un po’ come - non a caso - si fece al tempo dei Lumi con i cimiteri, improvvisamente sbattuti fuori dalle città. Ragionare con la morte significa armeggiare con rituali, elaborazioni del lutto, cerimonie collettive, tutti dispositivi ben noti alle civiltà premoderne ma con cui la società della tecnoscienza non ha alcun tipo di confidenza. E quindi la vecchia signora con la falce, ammantata nell’orrore della sua irreversibilità, non può che essere messa alla porta da tutto. Perfino dai necrolgi. Come ricorda spesso Massimo Fini, ci si inventa qualsiasi acrobazia lessicale - «è venuto a mancare», «è passato a miglior vita», «si è spento» - pur di non dire l’unica cosa che andrebbe detta: è morto. Punto. Perfino i social network come Facebook che un tempo eliminavano i profili dei defunti ora li tengono a galla permettendo ai familiari di continuare ad animarli e lavorando, nel lungo periodo, ad una sorta di sopravvivenza online della persona che continuerebbe a esistere come «Io virtuale» (guardatevi la prima puntata della serie Netflix Verso il futuro, da brividi).
E tuttavia, poiché ciò che non viene addomesticato ritorna in modo selvaggio (la massima è di Franco Cardini), c’è un caso, un solo caso, in cui la morte ottiene cittadinanza: quando può farsi spettacolo. Lo ha spiegato magnificamente oltre quarant’anni fa Jean Baudrillard ne Lo scambio simbolico e la morte ricordando che se la morte è, da un lato, un «sfida radicale» a cui il sistema non può replicare, dall’altro è anche un «simulacro» che partecipa perfettamente alla comunicazione spettacolare di massa. E la caduta nel pozzo rientra a pieno in questo secondo dispositivo, stimolando quella morbosa curiosità che si può esercitare al sicuro da ogni cattivo pensiero. Grazie alla mediazione dello schermo, la tragicità del fatto può essere rimossa e la scena pensata come appartenente a un videogioco o a un film, magari a una versione istantanea de La morte in diretta di Bertrand Tavernier, altro capolavoro profetico.
È una morte un po’ meno morte, insomma, da ammirare dal divano a distanza (mentale) di sicurezza, permettendosi così di rimuovere ogni vincolo di rispetto e umana pietà. Ma la morte è la morte. E non saperci fare i conti non è una giustificazione alla barbarie. Grazie ai lettori per averlo compreso per primi.