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E abbiamo scoperto che non siamo più il granaio d’Italia

 
Arturo Guastella

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Arturo Guastella

E abbiamo scoperto che non siamo più  il granaio d’Italia

Il grano in Magna Grecia

La guerra in Ucraina ha destato la terra della Magna Grecia sulla provenienza del frumento

Sabato 19 Marzo 2022, 15:05

TARANTO - Così noi, qui in Magna Grecia (allargata, per la circostanza e per la koinè, la lingua comune, anche alla Sicilia), che da secoli venivamo considerati come il granaio d’Italia, ci siamo improvvisamente accorti che già da qualche anno, la coltivazione del frumento e dei cereali si era spostata a nord, in quella terra popolata da Cimmeri e Sciti, guardati con sospetto da Omero e da Erodoto, per i loro costumi barbari. Insomma, in quella pianura sarmatica, dove, ora, l’ambizioso voivoda russo, ha portato i suoi cingolati, calpestando diritti e cittadini inermi. E, allora, abbiamo dovuto prendere atto che la farina e i prodotti dei nostri pastifici, parlavano il cirillico, malgrado le diciture italiote e le assicurazioni che trattavasi di spighe coltivate nello Stivale. Certo, avremmo dovuto accorgerci che la coltivazione del grano duro era praticamente scomparsa da almeno un decennio dal nostro Settentrione e che dei tre milioni e passa di ettari coltivati a grano nel Sud, ne resistono appena un milione e 486 ettari.

Eppure è noto che questo cereale, a differenza del grano tenero, fornisce la materia prima più ricercata per quasi tutte le paste alimentari e che la sua coltivazione è possibile anche in territori con pochissime risorse idriche. Abbiamo sentito con le nostre orecchie, rinomati pastai della Magna Grecia, lamentarsi che per la guerra le loro navi onerarie, erano rimaste bloccate nei porti del Mar Nero, ad Odessa, soprattutto, mentre le scritte sul loro àrtos, il pane bianco, riportavano diciture nel nostro alfabeto. E le cose non vanno bene neppure per la coltivazione del grano tenero. La superficie nazionale per la coltura di questo cereale, è significativamente calata negli ultimi anni passando da 1,6 a 0,6 milioni di ettari di coltivazione. Dicono che di questa drastica riduzione, si siano avvantaggiati soprattutto gli Iperborei, gli Illiri, insomma, e, soprattutto quelli che vivono nella Gallia Transalpina, nella Cimbria, in Teutonia e nella Britannia. Di questo passo, qui da noi, ma anche nell’Iberia di Quinto Sertorio (altro granaio per i Quiriti), rimarrà presto disoccupato anche il fiero hidalgo don Quijote de la Mancha, per la totale scomparsa dei mulini a vento. Va bene, avremo poco pane, ma potremo sempre ricorrere al nostro antico alimento base, la màza, cioè, formata dalla farina d’orzo impastata in gallette. Brutte notizie, però, anche per la coltura di orzo. Infatti la superficie nazionale destinata alla sua coltivazione è andata contraendosi nel corso degli anni '90 (da 450 mila ettari a 300 mila ettari) e la produzione è inferiore al fabbisogno nazionale, con gli allevamenti degli animali che, da soli, ne assorbono l’85%.

«E il farro?», mi chiede il generale Sertorio, che, così disinvoltamente avevo chiamato in causa, distogliendolo dalle sue guerre in Lusitania. Il farro? Per fortuna mi viene in soccorso forse il più famoso alimentarista dell’antichità magnogreca, Archestrato di Gela, il quale mi ha spiegato che si tratta di una sorta di grano, dal nome latino di Tritum monococcum, usato come cibo già in tempi remotissimi, addirittura dall’eneolitico. La preoccupante carenza di panem nostrum e i suoi prevedibili aumenti dei costi, potrebbero rivoluzionare non solo i nostri deschi, ma perfino i nostri ritmi di vita. Se è vero che esso, il pane, e, in senso più lato il cibo, assume la «valenza di parametro per la scansione del tempo e delle fasi della giornata (colazione, pranzo, cena), differenziando i momenti quotidiani da quelli solenni delle festività, come anche le fasi importanti di passaggio nella nostra vita, come i banchetti di nascita, di compleanno, di matrimoni e, perfino di morte» ecco che la guerra di Putin non è poi così lontana. Inoltre, l’inciso virgolettato, è una puntualizzazione del filosofo Diogene Laerzio, il quale ricordava come anche in Grecia (e più tardi nella stessa Roma) determinate feste fossero strettamente legate al cibo. Con le Antesterie, per esempio, ad Atene, dove, per la circostanza, si sturavano le botti con il vino nuovo e si preparava una zuppa di verdure per i defunti. O, ancora, sempre in Grecia (e, perciò, probabilmente anche qui da noi), con le Pianepsie, a novembre, in onore di Apollo, con le offerte di focacce.

Tornando, comunque, all’Ucraina e all’aggressione proditoria che la sta martoriando, la sua nobiltà di origini è, per certi versi, più vicina a noi, che agli abitatori della steppa, in quanto quell’Odessa, dove sono alla fonda le triremi dei nostri pastai, sembra abbia origine greca, in quanto, era il luogo di due empori greci, Tyras e Olbia Pontica, mentre l’etimo del suo nome, potrebbe derivare da un’altra colonia greca, Odessus, anche se i geografi antichi, su questo non sono d’accordo. In quanto all’espugnazione di Kiev, da parte dello «zaretto» russo, ci permettiamo di citare, a questo proposito, una gnome di Orazio. Non cuivis homini contingit adire Corinthum, con la quale il poeta di Venosa, voleva significare che è quasi impossibile per certi uomini riuscire a varcare le mura di Corinto.

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